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Cassazione Penale, sez. III, 1 giugno 2005, n. 20499

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
III SEZIONE PENALE


composta dagli ill.mi signori Magistrati:

dott. Umberto Papadia Presidente Udienza pubblica
1. dott. Carlo Grillo
3. dott. Giovanni Amoroso
4. dott. Giulio Sarno
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da xxxx xxxx ; xxxx xxxx; da xxxx xxxx ; xxxx xxxx ; xxxx xxxx
avverso la sentenza del 20 novembre 2003 della Corte d'appello di Milano;
Udita la relazione fatta in pubblica udienza dal Consigliere Giovanni Amoroso;
Udito il P.M., in persona del S. Procuratore Generale dott. Ignazio Patrono che ha concluso per il rigetto del ricorso;

la Corte osserva:

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con sentenza in data 27 gennaio 2003 il Tribunale ordinario di Lecco ha condannato xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx e xxxx xxxx, concesse a tutti - tranne che a xxxx xxxx - le attenuanti generiche ed il beneficio della sospensione condizionale della pena inflitta: il xxxx alla pena di quattro mesi di reclusione in ordine al delitto di cui all'art. 323, comma 1, c.p.; l'xxxx ed i fratelli xxxx ciascuno alla pena di quattro mesi di arresto ed euro 7.000,00 di ammenda in ordine al reato di cui agli artt. 27, 28, 51, comma 1, lettera a), e comma 3, d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22; il xxxx, infine, alla pena di euro 10.000,00 di ammenda in ordine al reato di cui agli artt. 99 c.p., 30 e 51, comma 1, lettera a), d.lgs. n.22/97 (fatti tutti accertati in xxxx - e xxxx - il 22 gennaio 2001). In particolare al xxxx era stato contestato il trasporto di residui provenienti da un ex opificio, depositati e progressivamente accumulati sul terreno di proprietà dell'xxxx e dei xxxx; ai quali era stato contestato l'attivazione su tale terreno di un'abusiva discarica di rifiuti.

2. Hanno interposto ritualmente appello l'xxxx ed i fratelli xxxx tramite il loro comune difensore di fiducia chiedendo, in principalità, l'assoluzione con formula ampia e, in subordine, la derubricazione nell'ipotesi di cui al comma 1 della lettera a) della stessa norma incriminatrice con conseguente riduzione della pena inflitta, nonché xxxx xxxx tramite il suo difensore di fiducia invocando la propria assoluzione con formula ampia.

Ha proposto appello (così convertito il ricorso per cassazione ex art.580 c.p.p.) xxxx xxxx anch'egli invocando la propria assoluzione con formula ampia.

Con sentenza del 20 novembre 2003 la Corte d'appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale ordinario di Lecco in data 27 gennaio 2003 e condannato gli appellanti xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx e xxxx xxxx al pagamento, in via solidale tra loro, delle spese processuali del giudizio d'appello. Inoltre ha ordinato la confisca dei mappali nn.xxxx del foglio x del xxxx (Sondrio), già oggetto di sequestro giudiziario in data 18 gennaio 2001 ad opera dei Carabinieri di xxxx.

3. Avverso questa pronuncia hanno proposto ricorso per cassazione sia il xxxx (con un solo motivo) che xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx e xxxx xxxx (con quattro motivi).

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Sia il ricorso del xxxx (nel suo unico motivo) che quelli di xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx e xxxx xxxx (con censure articolate nei primi due motivi, sostanzialmente connessi) contestano innanzi tutto la ricostruzione della condotta materiale quale operata dai giudici di merito.

In questa parte i ricorsi, quanto all'accertata materialità della condotta e alla sua riferibilità agli imputati al fine dell'affermazione della loro penale responsabilità, sono infondati.

Ha in proposito osservato la Corte d'appello che la materialità dei fatti contestati a tutti gli imputati era emersa non soltanto dalle deposizioni dibattimentali, ma anche dalla documentazione e dalle fotografie acquisite al fascicolo processuale.

Sempre in linea di mero fatto, i giudici di merito hanno ritenuto che l'assunto difensivo in ordine alla destinazione del materiale da demolizione depositato sul terreno di xxxx, di proprietà degli imputati xxxx e xxxx, al riutilizzo mediante reinterro era smentito dalla circostanza che, a seguito del provvedimento di sequestro del terreno e dei rifiuti, il xxxx, che già aveva trasportato il materiale suddetto, aveva provveduto a trasferire in una discarica autorizzata gran parte di tale materiale.

Inoltre ha osservato la Corte d'appello che dal verbale di sopralluogo redatto dal Corpo Forestale dello Stato, Stazione di xxxx, sopralluogo effettuato per delega dell'Autorità Giudiziaria di Sondrio, si ricavava che l'area in questione era interessata da un deposito incontrollato di rifiuti costituiti per la maggior parte da blocchi di cemento con armature, blocchi di marmo, pezzi di tegole, terra, sassi, tubi di plastica, gomme di automezzi, pali di legno e materiale ferroso vario; la superficie interessata era di circa mq. 900 per un quantitativo di rifiuti di circa mc.13.000.

La Corte d'appello ha poi escluso in particolare la proclamata destinazione al riutilizzo dei rifiuti scaricati a xxxx e ciò sia perché il riempimento del mappale n.x doveva essere effettuato con terreno "da coltivo" e non con detriti (come espressamente indicato nella concessione edilizia n.x/2000) sia perché i lavori di realizzazione del fabbricato destinato ad attività artigianale con soprastante appartamento erano già stati completamente ultimati in epoca antecedente.

L'assenza di qualsiasi prova sulla destinazione al riutilizzo del materiale in questione determinava che si trattava di rifiuti in ordine ai quali il xxxx aveva eseguito il contestato trasporto irregolare ed operazioni di cernita e di deposito preliminare, parimenti abusive, sul terreno di xxxx (Sondrio) di proprietà dell'xxxx e dei fratelli xxxx, tutti intestatari.

Con riferimento a questi ultimi il consenso da essi manifestato all'impresa xxxx xxxx di depositare i rifiuti prodotti dalla loro attività economica sul terreno di xxxx implica una abusiva gestione industriale dei rifiuti stessi, tipica di una discarica. Orbene, quanto all'accertamento della condotta materiale, deve rilevarsi che tratta di una valutazione in fatto, ampiamente motivata nella sentenza impugnata, non censurabile in sede di giudizio di legittimità; mentre la difesa del ricorrente invoca nella sostanza una nuova valutazione di merito che è inammissibile nel giudizio di cassazione non ricorrendo l'ipotesi, eccezionale e residuale, della manifesta illogicità, non senza considerare tra l'altro che la difesa del ricorrente non ha neppure specificamente e testualmente denunciato i punti della motivazione che si porrebbero in insanabile contrasto con altri punti della medesima pronuncia. Infatti il vizio di motivazione di una sentenza art. 606, lett. e), c.p.p. sussiste solo allorché essa mostri, nel suo insieme, un'intrinseca contraddittorietà ed un'obiettiva deficienza del criterio logico che ha condotto il giudice di merito alla formazione del proprio convincimento; ossia presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l'individuazione della e l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto alla base della decisione adottata.


La denunzia del vizio di motivazione non conferisce a questa Corte il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica - in relazione ad un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio - le argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta esclusivamente individuare le fonti del proprio convincimento, di esaminare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare la prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova.


2. Nei motivi suddetti (unico motivo del ricorso del xxxx e primi due motivi dei ricorsi di xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx e xxxx xxxx) i ricorrenti pongono anche una questione di diritto relativamente alla nozione di rifiuto. Invocano l'interpretazione autentica dell'art. 6, comma 1, lett. a), d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22, quale posta dall'art. 14 d.l. 8 luglio 2002 n. 138, conv. in legge 8 agosto 2002 n. 178. In particolare richiamano il secondo comma dell'art. 14 cit. sostenendo che la nuova nozione di "rifiuto" condurrebbe a ritenere, diversamente da quanto affermato nella sentenza impugnata, che nella specie non si trattava di rifiuti, bensì di materiali atti al loro riutilizzo, con destinazione corrispondente ad un oggettivo reimpiego (assentito livellamento del terreno dove tali materiali erano depositati) senza aver subìto nessun intervento preventivo di trattamento e senza aver recato pregiudizio all'ambiente.

In particolare i ricorrenti invocano, a fondamento della censura mossa alla sentenza impugnata, un precedente di questa Corte (Cass., sez. III, 25 giugno - 2 ottobre 2003, n. 37508), che, facendo applicazione della menzionata disposizione di interpretazione autentica, ha rilevato che anche i materiali derivanti da demolizione di edifici, reimpiegati - senza trasformazioni preliminari - in un'attività compatibile (quale i materiali di riporto per sottofondo di un piazzale) non assumono la nozione di rifiuto. Da ciò - secondo la difesa dei ricorrenti - l'inesistenza del reato contestato in ragione della sopravvenuta più favorevole normativa.

2.1. L'art. 14 cit., invocato dai ricorrenti - nel porre l'interpretazione autentica della definizione di "rifiuto" di cui all'art. 6, comma 1, lett. a), d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (ma secondo Cass., sez. III, 4 marzo - 13 maggio 2005, n. 17836, si tratta di una vera e propria innovazione sub specie di interpretazione autentica) - in particolare stabilisce, al secondo comma, che non ricorre la decisione di disfarsi, di cui alla lett. b) del primo comma della medesima disposizione, per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni: a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente; b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del cit. d.lgs. n. 22 del 1997. Ossia l'art. 14 cit., che al primo comma precisa in positivo la nozione di rifiuto, delinea poi al secondo comma una fattispecie derogatoria (ossia ciò che rifiuto non è), la quale fuoriesce quindi dall'area dell'illecito penale, con una modalità definitoria non dissimile da quella dell'art. 1, comma 17, legge 21 dicembre 2001 n. 443; disposizione questa che, con una norma parimenti dichiarata di interpretazione autentica, già aveva precisato che non costituiscono rifiuti le terre e rocce da scavo, anche di gallerie.

I rilievi dei ricorrenti riguardano essenzialmente l'ambito di tale fattispecie derogatoria del secondo comma dell'art. 14, che nella loro prospettazione difensiva andrebbe interpretato con un'ampiezza tale da comprendere anche la condotta materiale loro ascritta. Ed a tal fine invocano in particolare - come già ricordato - una pronuncia di questa Corte (Cass., sez. 11I, 25 giugno - 2 ottobre 2003, n. 37508) che - sostengono i ricorrenti - conforterebbe questa interpretazione, invece disattesa dalla Corte d'appello di Milano.

2.2. Deve a questo proposito rilevarsi che, essendo il d.lgs. n. 22 del 1997 (e segnatamente il suo art. 6, di cui il cit. art. 14 si presenta come nonna di interpretazione autentica) disposizione di attuazione della normativa comunitaria in materia (la direttiva del Consiglio 15 luglio 1975 n. 75/442/Cee, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991 n. 91/156/Cee, nonché dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996 n. 96/350/Ce), esso va interpretato in sintonia con tale normativa, fermo restando - come ha ricordato da ultimo la Corte di giustizia nella pronuncia in fra ulteriormente richiamata (sez. Il, 11 novembre 2004, C-457/02) - che "una direttiva non può certamente creare, di per sé, obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso"; ed "analogamente, una direttiva non può avere l'effetto, di per sé e indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni".

Giova allora considerare in generale che, al pari dell'interpretazione costituzionalmente orientata, volta a privilegiare la lettura della disposizione che non si ponga in contrasto con parametri costituzionali, sussiste simmetricamente un'esigenza di interpretare la normativa nazionale in termini tali che essa non risulti in contrasto con la normativa comunitaria. Ha in particolare affermato la Corte costituzionale (sent. n. 190 del 2000) che "[...] - come l'interpretazione conforme a Costituzione deve essere privilegiata per evitare il vizio di incostituzionalità della norma interpretata - analogamente l'interpretazione non contrastante con le norme comunitarie vincolanti per l'ordinamento interno deve essere preferita, dovendosi evitare che lo Stato italiano si ritrovi inadempiente agli obblighi comunitari."

Questa esigenza di interpretazione orientata si pone poi maggiormente allorché la stessa Corte di giustizia abbia già valutato la conformità del diritto nazionale a quello comunitario. In particolare la Corte costituzionale (sent. n. 389 del 1989) ha ulteriormente affermato che la Corte di giustizia, quale interprete qualificato del diritto comunitario, «ne precisa autoritariamente il significato»; beninteso - può aggiungersi - sempre che non operi quello che la stessa giurisprudenza costituzionale (soprattutto dopo C. cost. n. 232 del 1989) definisce come controlimite, ossia il blocco dei «principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale» e dei «diritti inalienabili della persona umana», tra i quali - può qui precisarsi in riferimento alle ipotesi in cui la condotta penalmente rilevante si riempia di contenuto con una disciplina di trasposizione della normativa comunitaria - rientra il principio dell'irretroattività della legge penale (art. 25, secondo comma, Cost.).


2.3. In particolare nella fattispecie rileva la recente pronuncia della Corte di giustizia (sez. II, 11 novembre 2004, C-457/02, cit.) che è stata investita proprio della questione di compatibilità del cit. art. 14 con la normativa comunitaria di riferimento. Orbene - in disparte i problemi di un eventuale irriducibile contrasto dell'art. 14 cit. nella parte in cui sembrerebbe escludere dall'area dell'illecito penale la condotta di mero abbandono dei rifiuti e quella avente ad oggetto i residui di consumo (per i quali si richiamano gli ampi rilievi svolti da Cass., sez. III, 4 marzo - 13 maggio 2005, n. 17836, cit.) - quanto al secondo comma dello stesso art. 14, nella parte in cui, individuando un'area di deroga dalla sanzionabilità penale, si riferisce ai residui di produzione (ics est: ai "beni o sostanze e materiali residuali di produzione"), deve considerarsi che la Corte di giustizia ha statuito (nel dispositivo) che "La nozione di rifiuto ai sensi dell'art. 1, lett. a), 1° comma, della direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156 e dalla decisione 96/350, non dev'essere interpretata nel senso che essa escluderebbe l'insieme dei residui di produzione o di consumo che possono essere o sono riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all'ambiente, vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un'operazione di recupero ai sensi dell'allegato II B di tale direttiva.". Ed ha chiarito (in motivazione) che un'operazione di ritaglio della nozione di "rifiuto", della quale è pur sempre necessaria comunque un'interpretazione estensiva in ragione dei principi di precauzione e prevenzione espressi dalla normativa comunitaria in materia, è possibile solo nei limiti in cui sia sottratta alla relativa disciplina ciò che risulti essere un mero "sottoprodotto", del quale l'impresa non abbia intenzione di disfarsi, non esclusione dei residui di consumo.

Quindi occorre essenzialmente distinguere tra "residuo di produzione", che è un rifiuto, pur suscettibile di eventuale utilizzazione previa trasformazione, e "sottoprodotto", che invece non lo è, fermo restando - come già in passato affermato dalla stessa Corte di giustizia (sez. VI, 25 giugno 1997, C-304/94, 330/94, 342/94 e 224/95) - che la nozione di rifiuti, ai sensi degli art. I della direttiva 75/442, nella sua versione originale, e della direttiva 78/319, non deve intendersi nel senso che essa esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica. Ed a tal fine - precisa la Corte di giustizia nella più recente citata decisione - in tanto è ravvisabile un "sottoprodotto" in quanto il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima sia non solo eventuale, ma "certo, senza previa trasformazione, ed avvenga nel corso del processo di produzione". Al presupposto della mancanza di pregiudizio per l'ambiente - comunque espressamente richiesto dalla lett. a) del secondo comma dell'art. 14 cit., ma implicitamente sotteso, per una necessaria interpretazione sistematica e complessiva della disposizione, anche nell'ipotesi della lett. b) del medesimo comma - si aggiunge una tipizzazione del materiale di risulta di un processo di produzione, tale da renderlo riconoscibile ex se come "sottoprodotto". Ciò che non nuoce all'ambiente e può essere inequivocabilmente ed immediatamente utilizzato come materia prima secondaria in un processo produttivo si sottrae alla disciplina dei rifiuti, che non avrebbe ragion d'essere; la quale invece trova piena applicazione in tutti i casi di materiale di risulta che possa essere sì utilizzabile, ma solo eventualmente ovvero "previa trasformazione"; ciò che, proprio in ragione del principio di precauzione e prevenzione richiamato dalla Corte di giustizia, comporta l'applicazione della disciplina di controllo dei rifiuti.

Già in precedenza la Corte di Giustizia (sez. VI, 18 aprile 2002, n. C-9/00) aveva affermato che non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni sullo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti. Tuttavia - ha precisato la Corte - occorre interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro natura, e quindi occorre circoscrivere la fattispecie esclusa, relativa ai "sottoprodotti", alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia "solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione".


2.4. Ed allora - questo essendo lo stato della giurisprudenza comunitaria sulla questione - si ha che anche per la normativa nazionale deve accedersi, quanto all' ipotesi dei residui di produzione, ad un'interpretazione della fattispecie derogatoria del secondo comma dell'art. 14 cit., orientata dall'esigenza di conformità alla normativa comunitaria, disattendendosi all'opposto una (pur plausibile) interpretazione estensiva di "beni o sostanze e materiali residuali di produzione", quale rifiuto solo eventualmente riutilizzabile previa trasformazione, perché una tale lettura dell'art. 14 cit. comporterebbe un contrasto con la normativa comunitaria, chiaramente evidenziato dalla più recente, e sopra citata, pronuncia della Corte di giustizia.

Ed è questa, in conclusione, la nozione restrittiva di residuo di produzione equiparato a "sottoprodotto" che - in contrapposizione a quella di residuo di produzione che rimane rifiuto - emerge dall'interpretazione del secondo comma dell'art. 14 cit., orientata dall'esigenza di conformità alla disciplina comunitaria, e che integra la fattispecie derogatoria prevista da tale disposizione.

23. Del resto una tale interpretazione estensiva, nella sostanza invocata dai ricorrenti, non trova neppure riscontro - dopo la sopravvenienza dell'art. 14 d.l. 8 luglio 2002 n. 138, conv. in legge 8 agosto 2002 n. 178, cit. - nella giurisprudenza di questa Corte che, anche prima del più recente intervento della Corte di giustizia, ha affermato il primato del diritto comunitario in materia (Cass., sez. III, 15 gennaio - 15 aprile 2003, n. 17656) ed ha elaborato la nozione di "sottoprodotto", ravvisabile in "situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione" (Cass., sez. III, 6 giugno - 31 luglio 2003, n. 32235), sempre che - ha precisato la medesima pronuncia - "non vi sia pregiudizio all'ambiente".

Anche la pronuncia di questa Corte (Cass., sez. III, 25 giugno - 2 ottobre 2003, n. 37508), invocata dalla difesa dei ricorrenti, ha dichiaratamente fatto applicazione dei principi già espressi dalla precedente sentenza della Corte di Giustizia (sez. VI, 18 aprile 2002, C-9/00, cit.). In quel giudizio si trattava di materiale di un muro demolito che "non presentava carattere di disomogeneità, né era mescolato a sostanze diverse", materiale che era stato reimpiegato immediatamente in loco, senza la necessità di alcun trattamento, quale sottofondo di un piazzale; attività questa di cui era stata ritenuta la compatibilità ambientale e quindi l'assenza di nocività per l'ambiente. Quindi in tanto è stata esclusa l'applicabilità della disciplina dei rifiuti, in quanto si trattava proprio di un residuo di produzione (id est: "sottoprodotto") inequivocabilmente ed immediatamente utilizzato come materia prima secondaria nel processo produttivo di costruzione del piazzale, in una situazione di verificata compatibilità ambientale.

In applicazione dei medesimi principi si è ritenuto che, all'opposto, non rientrassero nella deroga di cui all'art. 14 cit. i pneumatici usati dei quali il detentore si sia disfatto (Cass., sez. III, 19 gennaio - 9 febbraio 2005, n. 4702), né i residui di attività di demolizioni edili (Cass., sez. III, 12 ottobre - 1 dicembre 2004, n. 46680; Cass., sez. III, 16 gennaio - 26 febbraio 2004, n. 8424), né il residuo della lavorazione di agrumi (buccia e polpa) quand'anche eventualmente utilizzabile come concime (Cass., sez. III, 21 settembre - 11 novembre 2004, n. 43946), né le traversine di legno dismesse dall'ente ferroviario (Cass., sez. III, 14 aprile - 26 maggio 2004, n. 23988), né le acque reflue di cui il detentore si disfi senza versamento diretto (Cass., sez. III, 11 marzo - 4 maggio 2004, n. 20679), né le acque di sentina (Cass., sez. III, 27 giugno - 9 ottobre 2003, n. 38567).

Invece è stato ritenuto che rientrassero nella fattispecie derogatoria - e che quindi costituissero residui di produzione nel senso di "sottoprodotti" - la parte inorganica di petrolio grezzo che si concentra a seguito della diminuzione della componente organica per la sua trasformazione in combustibili pregiati (Cass., sez. III, 14 novembre 2003 - 3 febbraio 2004, n. 3978), le sostanze denominate "slops" nell'industria petrolifera (Cass., sez. III, 6 giugno - 31 luglio 2003, n. 32235, cit.), il materiale di scavo e sbancamento di strade (Cass., sez. III, 11 febbraio - 24 marzo 2003, n. 13114) e - secondo il più volte citato precedente invocato dalla difesa dei ricorrenti - il materiale di demolizione di un preesistente muro (Cass., sez. III, 25 giugno - 2 ottobre 2003, n. 37508, cit.).


2.6. Nella specie - una volta accolta, per le considerazioni finora esposte, un'interpretazione restrittiva della fattispecie derogatoria di cui al secondo comma dell'art. 14 cit. quanto ai "beni o sostanze e materiali residuali di produzione" - deve conseguentemente escludersi - come correttamente ritenuto dalla Corte d'appello di Milano - che possa trovare applicazione l'art. 14 cit. non sussistendo i presupposti, sopra evidenziati, della fattispecie esclusa.

Da una parte c'è da considerare che - come già rilevato - sull'area in questione era depositato un ammasso di blocchi di cemento con armature, blocchi di marino, pezzi di tegole, terra, sassi, tubi di plastica, gomme di automezzi, pali di legno e materiale ferroso vario. Si tratta quindi di un ammasso informe e disomogeneo, di varia provenienza, che di per sé non può qualificarsi come "sottoprodotto".


Inoltre l'impiego certo in un processo di produzione è risultato in concreto escluso sia perché - come accertato dai giudici di merito - tale ammasso di rifiuti è stato alla fine avviato verso una discarica autorizzata, sia perché - in riferimento all'eventuale utilizzazione in loco come materiale di riempimento, ipotizzata dalla difesa - la concessione edilizia assentita ai proprietari del terreno in questione prevedeva il livellamento dello stesso mediante l'utilizzazione di terreno da riporto, e non già di materiale inerte, in modo da costituire un adeguato strato di terreno da coltivo.

3. Anche il terzo motivo dei ricorsi di xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx e xxxx xxxx - con cui si contesta la ritenuta sussistenza degli estremi dell'abusiva attivazione di una discarica di rifiuti - è infondato.

In punto di diritto la Corte d'appello ha in proposito sottolineato che erano integrati gli estremi della definizione di discarica contenuta nell'art. 2, lett. g), d.lgs. 13 gennaio 2003 n.36 dovendo per essa intendersi l'area adibita a smaltimento di rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo, compresa la zona interna al luogo di produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi da parte del produttore degli stessi, nonché qualsiasi area di deposito temporaneo dei rifiuti per più di un armo.

Tale valutazione è corretta ed immune da vizio di violazione di legge.

Infatti, quanto alla nozione di discarica, deve ribadirsi quanto già affermato da questa Corte (da ultimo Cass., Sez. III, 12 luglio - 8 settembre 2004, n. 36062) secondo cui i materiali provenienti da demolizioni edilizie costituiscono rifiuti speciali; pertanto la destinazione di un area a centro di raccolta di tali rifiuti e lo scarico ripetuto di essi, senza la prescritta autorizzazione, anche in mancanza di una specifica organizzazione di persone e di mezzi, integra il reato di realizzazione e gestione di una discarica abusiva, previsto dalla fattispecie di cui all'art. 51, terzo comma, d.lgs. n. 22 del 1997, senza peraltro che sia necessario il dolo specifico del fine di lucro o di guadagno. Cfr. anche Cass., sez. III, 16 gennaio - 26 febbraio 2004, n. 8424, che ha ribadito che i materiali provenienti da attività di demolizione o scavo costituiscono rifiuti speciali ai sensi dell'art. 7 d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22; conseguentemente lo scarico degli stessi attraverso una condotta ripetuta, anche se non abituale e protratta per lungo tempo, configura il reato di realizzazione di discarica non autorizzata di cui all'art. 51 del citato d.lgs. n. 22/97.

C'è poi da aggiungere che ai fini della configurabilità del reato di gestione di discarica in difetto di autorizzazione, di cui all'art. 51 d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22, il concetto di gestione deve essere inteso in senso ampio, in modo da comprendere qualsiasi contributo sia attivo che passivo diretto a realizzare o a tollerare lo stato di fatto che costituisce reato (Cass., sez. III, 12 novembre 2003 - 8 gennaio 2004, n. 37; conti Cass., sez. III, 12 maggio - 29 luglio 1999, n. 1819).

4. E' invece fondato il quarto motivo dei ricorsi di xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx e xxxx xxxx, con cui gli stessi si dolgono della violazione del divieto di reformatio in pejus per aver la Corte d'appello pronunciato la confisca del terreno in questione, così riformando la pronuncia di primo grado, in mancanza di impugnazione del pubblico ministero .

In proposito deve ricordarsi che la giurisprudenza più recente di questa Corte (Cass., sez. IV, 25 giugno - 11 luglio 2001, n. 27998) ha affermato che, in tema di impugnazioni, costituisce violazione del generale divieto di reformatio in peius (art. 537, comma 3, c.p.p.) il provvedimento di confisca disposto per la prima volta dalla Corte di appello in assenza di impugnazione del pubblico ministero. Analogamente Cass., sez. IV, 1-30 ottobre 1999, n. 12356, ha ritenuto che la disposizione della confisca da parte del giudice di appello in assenza di una precedente statuizione al riguardo da parte del giudice di primo grado e di una impugnazione del pubblico ministero, costituisce reformatio in pejus della decisione in violazione del divieto disposto dall'art. 597 c.p.p.. Cfr. anche Cass., sez. VI, 15 gennaio - 13 marzo 2001, n. 10353 che, in ragione del divieto di reformatio in pejus, ha escluso che il giudice d'appello possa disporre il sequestro in previsione della confisca obbligatoria in mancanza di impugnazione del pubblico ministero.

Tale citata giurisprudenza - che ha superato quella più risalente di segno opposto (Cass., sez. I, 2 luglio - 12 settembre 1998, n. 3964; Cass., sez. VI, 9 aprile - 20 settembre 1001 n. 9842) - appare maggiormente convincente perché si ispira ad una nozione ampia, e più garantistica, del divieto di reformatio in pejus espresso dal terzo comma dell'art. 597 c.p.p.; disposizione questa che, nell'attuale più ampia formulazione rispetto a quella del precedente codice di rito, ha esteso siffatta garanzia - il cui fondamento, secondo autorevole dottrina, è quello di impedire che l'imputato appellante abbia a temere pregiudizio per il sol fatto dell'esercizio del proprio diritto di impugnare

- anche alle misure di sicurezza in generale, quale appunto è la confisca, risolvendo testualmente una controversa questione che si poneva nella vigenza dell'art. 515, terzo comma, c.p.p. del 1930 che non menzionava le misure di sicurezza. Ciò si desume anche a contrario dal secondo comma del medesimo art. 597 c.p.p. che prevede che, allorché ci sia l'appello dal pubblico ministero, il giudice possa applicare, quando occorre, misure di sicurezza; disposizione questa peraltro richiamata dal terzo comma dell'art. 595 c.p.p. talché è possibile l'applicazione della misura di sicurezza anche nel caso di appello incidentale del pubblico ministero. Quindi la garanzia del divieto di reformatio in pejus si accompagna comunque alla possibilità per il pubblico ministero di chiedere anche in via di impugnazione incidentale (per la cui compatibilità con l'art. 112 Cost. v. C. cost. n. 280 del 1995) la riforma della sentenza di primo grado quanto alla mancata applicazione di una misura di sicurezza. Ma, ove manchi l'appello, sia principale che incidentale, del pubblico ministero il giudice - la cui cognizione, in ragione del principio devolutivo dell'appello (art. 597, primo comma, c.p.p.: tantum devolutum quantum appellatum), è limitata ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti dall'imputato, in caso di appello solo di quest'ultimo - non può, rigettando l'appello, applicare una misura di sicurezza, neppure sub specie di correzione di errore materiale della sentenza di primo grado.
5. Pertanto i ricorsi di xxxx xxxx, xxxx xxxx, xxxx xxxx e xxxx xxxx vanno accolti limitatamente al quarto motivo, relativo alla disposta confisca, che va eliminata; nel resto i ricorsi tutti devono essere rigettati.
PER QUESTI MOTIVI

la Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata sul punto della disposta confisca, che elimina. Rigetta nel resto i ricorsi.
Così deciso in Roma, il 14 aprile 2005