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Consiglio di Stato, VI, 24 novembre 2003, n. 7725

                                                                       

 REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello proposto dalla Wind Telecomunicazioni s.p.a., in persona del suo procuratore pro-tempore Francesca Pace, rappresentata e difesa dall’avv. Giuseppe Sartorio e dall’avv. Luca Di Raimondo ed elettivamente domiciliata in Roma, Via della Consulta n.50;

contro

il Comune di Ostuni, in persona del suo legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Cecilia R. Zaccaria e dall’avv. Alberto Angeletti ed elettivamente domiciliato in Roma, Via G. Pisanelli n.2 presso lo studio del secondo;
per l'annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia - Sezione di Lecce n.1774 del 10/5/2002;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’appellato;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 17 ottobre 2003 relatore il Consigliere Giancarlo Montedoro;
Uditi, altresì, l’Avv. Sartorio, l’Avv. Di Raimondo, l’Avv. Angeletti per sé e per l’Avv. Zaccaria;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

Con ricorso in appello la Wind Telecomunicazioni s.p.a. impugnava la sentenza in epigrafe indicata con la quale il Tar di Lecce ha respinto il ricorso (e successivi motivi aggiunti) proposto dalla Wind Telecomunicazioni s.p.a. avverso il diniego di autorizzazione edilizia in sanatoria di cui all’atto prot. 23054/2000 del 18/6/2001; la diffida alla rimozione delle antenne realizzate in Corso Vittorio Emanuele 205 ordinando all’ENEL l’immediata sospensione della fornitura del servizio; le deliberazioni nn.2 e 3 del 12/1/2001 e dell’1/2/2001 con cui il Consiglio Comunale di Ostuni ha adottato ed approvato una variante al PRG per l’installazione, la modifica e l’adeguamento degli impianti di radiotelecomunicazione, fissi o collocati su sopporti mobili, con frequenza compresa tra 100 Khz e 300 Ghz già impugnate con ricorso n.1357/2001; l’atto di demolizione di due antenne ed un ponte radio installate su di un traliccio già esistente in Corso Vittorio Emanuele n.205 prot. n.232/d del 12/10/2001.
Con lo stesso ricorso la WIND chiedeva il risarcimento del danno ingiusto derivatole per l’adozione degli atti impugnati.
Con la sentenza impugnata il Tar in primo luogo rilevava l’improcedibilità del ricorso per silenzio sull’istanza di sanatoria e per impugnativa della prima ordinanza di demolizione resa senza previa pronuncia sulla sanatoria, atti tutti superati dal diniego di sanatoria e dai provvedimenti successivi.
Nel merito poi il Tar esaminava l’atto regolamentare di organizzazione in tema di impianti di radiotelecomunicazioni adottato dal Comune di Ostuni.
Poi ha sostenuto che la fondatezza dell’istanza di sanatoria, anche se presentata in data anteriore all’adozione della disciplina regolamentare da parte del Comune, in base al principio tempus regit actum, deve essere valutata tenendo conto dello ius superveniens.
Sull’asserita incompetenza del Comune in materia di inquinamento elettromagnetico ed, in particolare, sull’adozione di prescrizioni limitative degli impianti di telefonia cellulare ha richiamato la legge regionale della Puglia n.17 del 30/11/2000, anteriore alla riforma di cui alla legge quadro n.36/2001, che già prevedeva il potere del Comune di dotarsi di un regolamento di organizzazione del sistema di telecomunicazioni, che integri la pianificazione territoriale, al fine di minimizzare il rischio di esposizione delle popolazioni.
L’art.21 comma 1 poi prevedeva poteri del comune concernenti l’attività autorizzatoria inerente la costruzione e l’esercizio degli impianti di telecomunicazione con frequenza compresa fra cento Khz e trecento Ghz.
Disposizioni analoghe sono poi state dettate dalla legge quadro che ha previsto un potere del Comune di adottare apposito regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici.
Alle regioni la legge quadro ha attribuito funzioni relative all’individuazione dei siti di trasmissione, alle modalità per il rilascio delle autorizzazioni all’installazione, all’individuazione di strumenti ed azioni per il raggiungimento di obiettivi di qualità quali ex art.3 comma 1 lett. d) n.1 e precisamente criteri localizzativi, standard urbanistici, prescrizioni per l’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili.
La regione Puglia ha dato attuazione a tale previsione con la legge 8/3/2002 n.5. Detta legge disciplina all’art.8 modalità di rilascio delle autorizzazioni e concessioni per l’installazione di impianti di remittenza radiotelevisiva e stazioni radio base, impone divieti di localizzazione, in corrispondenza di aree determinate e zone determinate, demanda ad una delibera di Giunta regionale da emanarsi entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge medesima la definizione di criteri generali per la localizzazione degli impianti e per l’identificazione delle aree sensibili con la relativa perimetrazione.
Il Comune di Ostuni ha esercitato le sue competenze in un quadro giuridico anteriore a quello dell’entrata in vigore della legge quadro e della relativa definizione delle competenze verticali fra Stato, regioni e comuni.
Il Tar ha ritenuto che le disposizioni regolamentari non siano poi caducate per effetto dello ius superveniens, salvo successive ulteriori determinazioni della Giunta regionale.
In particolare passando all’esame della legge pugliese, la legge regionale n.17/2000 il Tar ritiene che il regolamento, strumento divenuto centrale nella realizzazione dell’autonomia comunale, non costituisca – nella specie – espressione del potere di pianificazione urbanistica in senso stretto.
La circostanza per cui, ai fini dell’autorizzazione alle stazioni radio base, l’amministrazione comunale debba operare valutazioni di carattere estetico ambientale, o di impatto urbanistico è il frutto della rilevanza urbanistica dell’attività non della natura urbanistica del potere esercitato, simile a quello esercitato dai comuni con l’adozione dei regolamenti contro l’inquinamento acustico previsti e disciplinati dalla legge quadro n.447 del 26/10/1995.
Sulle singole norme regolamentari il Tar osserva che il regolamento prevede insediamenti in zone agricole, divieti assoluti in zone sensibili, distanze dai confini, nonché particolari ulteriori divieti; sostiene che i predetti impianti non possono essere qualificati fra le opere di urbanizzazione primaria, elencate dalla legge n.874/1964 (art.4).
La sentenza rileva altresì che il Comune con l’individuazione delle zone agricole non ha posto un divieto assoluto ma ha solo voluto indicare un criterio preferenziale, teso ad evitare la concentrazione degli impianti nei centri abitati.
Pertanto l’amministrazione deve, caso per caso, valutare la compatibilità di un impianto con le caratteristiche della zona.
Il criterio della distanza di almeno duecento metri dai luoghi sensibili viene giudicato non irragionevole o arbitrario.
Il criterio del divieto in alcune fasce territoriali in zona E si spiega per l’essere tali zone soggette a vincolo paesaggistico (la sentenza illustra il notevole interesse pubblico paesistico nelle zone costiere e collinari di Ostuni).
Ancora si sottolinea, nella decisione, la mancanza di lesività del regolamento in questione specie in relazione alla possibilità per i titolari di licenze individuali per lo svolgimento dei servizi pubblici di comunicazioni mobili, di impiegare infrastrutture di terzi o mettere in comune impianti e siti al fine di esercire la licenza.
Poi la sentenza afferma che è legittima la previsione regolamentare che assoggetta gli impianti in questione a concessione edilizia, non trattandosi di pertinenze a servizio di edifici, ma di impianti aventi un valore autonomo.
Il regolamento viene quindi ad essere valutato legittimo.
Sul diniego di sanatoria la sentenza afferma che esso è fondato su due ragioni sostanziali: la prima il contrasto dell’antenna con l’altezza pari a ventisei metri, con il limite delle altezze prescritto per il centro abitato, pari a metri 11, ed in secondo luogo, per la violazione delle prescrizioni regolamentari nella parte in cui vietano l’installazione di antenne nel centro abitato.
Il secondo profilo viene valutato inconsistente dalla sentenza, in assenza di puntuali specificazioni su quale sia il valore da tutelare, la prossimità a siti sensibili, i valori estetici in giuoco.
Il primo profilo viene invece ritenuto rilevante, con applicazione analogica delle normative in tema di altezze degli edifici al caso dell’installazione delle antenne di impianti di telefonia cellulare, applicazione ritenuta inevitabile stante il vincolo paesaggistico gravante sull’area.
Da ciò il rigetto del ricorso e della domanda di risarcimento danni.
L’atto di appello con il primo motivo lamenta violazione di legge in relazione agli artt.13 della legge n.47/1985, 35 e 36 della legge n.1150/1942, dell’art.7 della legge n.865/1971, della legge n.36/2001, nonché eccesso di potere sotto vari profili.
Con il primo motivo si aggredisce la diffida a rimuovere per l’illegittimità del diniego di sanatoria e si lamenta l’illegittimità in relazione al diniego di sanatoria, per vizi suoi propri e vizi derivati dall’illegittimità delle delibere regolamentari.
Si sostiene che l’altezza non può rilevare poiché le antenne insistono su un palo preesistente la loro installazione e non abusivo, nonché per la ragione giuridica dell’inapplicabilità della disciplina delle altezze previste per la costruzione degli edifici agli impianti di telefonia mobile.
Con ulteriore profilo del primo motivo si contesta l’applicabilità del regolamento per effetto del testuale tenore dell’art.13 della legge n.47/1985 che fa riferimento agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati al momento di presentazione della domanda e non successivamente.
La domanda in atti è del 30/8/2000 mentre la data di adozione della variante al PRG è 12/1/2001. In diverso caso si consentirebbe l’applicazione retroattiva di una normativa regolamentare.
Si cita altresì l’articolo unico della legge n.1902 del 1952 che ed il potere di sospensione della concessione, che contrasti con strumentazione urbanistica sopravvenuta adottata ma non ancora approvata, per inferirne che al di fuori di tali fattispecie non vi sia alcuna possibile di dare rilevanza alla normativa sopravvenuta.
Si rileva che in caso di natura urbanistica dell’atto regolamentare esso è in opponibile a chi ha presentato domanda prima della adozione dello strumento urbanistico, mentre in caso di natura non urbanistica di tale atto esso è comunque inapplicabile retroattivamente.
Si lamenta la mancata approvazione del regolamento ove inteso quale strumento urbanistico, si cita la sentenza del Consiglio di Stato n.3096 del 3 giugno 2002 per sostenere che il regolamento non è stato adottato con le garanzie partecipative previste per l’adozione degli strumenti urbanistici, né con adeguata istruttoria, e che risulta imporre limiti eccedenti dalla potestà urbanistica e costituenti deroga ai criteri e limiti di esposizione fissati dallo Stato.
In ultimo si sostiene che gli impianti in questione hanno natura di opere di urbanizzazione primaria, qualificazione espressamente riconosciuta dalla legge 4 settembre 2002 n.198.
Con il secondo motivo, essendo superato quello originariamente proposto contro la diffida a demolire, si ripropone il terzo motivo aggiunto di ricorso violazione di legge, in relazione all’art.10 della legge n.47/1985 ed eccesso di potere: la postazione di antenne è soggetta a mera autorizzazione e quindi in assenza del titolo abilitativo è soggetta a mera sanzione pecuniaria e non a rimozione.
La rimozione poi viola anche le linee guida della procedura di risanamento prevista nell’allegato C al D.M. n.381/1998.
La rimozione è stata disposta senza accertamento del superamento dei limiti previsti dalla normativa nazionale di riferimento.
Con il terzo motivo di appello si lamenta violazione di legge in relazione all’art.6 del t.u. enti locali nonché della legge n.36/2001 e dell’art.4 del D.M. n.381/1998.
Si sostiene l’impossibilità – dopo l’approvazione della legge n.36/2001 – di esercitare il potere regolamentare comunale in assenza della definizione del quadro giuridico della normativa statale e regionale.
Si rileva che la legge regionale n.12/2000 è abrogata dalla legge statale n.36/2001 e comunque non legittima il Comune ad imporre limiti derogatori rispetto alla normativa statale di cui al D.M. n.381/1998.
Inoltre viene denunciato il contrasto della normativa regolamentare con la legge regionale n.5 del 2002 che demanda alla giunta regionale di individuare una disciplina tipo di riferimento per l’adozione dei piani o regolamenti comunali di cui alla lettera a) del successivo articolo 6.
Tale potere poi è ulteriormente precluso ai comuni dalla sopravvenuta normativa di cui al d.lgs. n.198/1998.
Si richiamano alcune recenti decisioni del Consiglio di Stato sui limiti del potere regolamentare del Comune (sentenze 3/6/2002 n.3096 e 6/8/2002 n.4096).
L’appello poi si diffonde in una panoramica delle recenti pronunce dei Tar e delle opinioni dottrinali in materia.
Si nota che il divieto previsto dalla legge regionale pugliese di installazione degli impianti di zone soggette a vincolo paesaggistico sarebbe superato dal d.lgs. n.198/1998.
Si contesta la legittimità delle prescrizioni regolamentari nella parte in cui prevedono distanze da luoghi sensibili senza tener conto della prefissazione dei limiti di esposizione a livello statale.
Con il quarto motivo di appello si lamenta la violazione di diversi precetti costituzionali (3, 21, 91, e 47 Cost.), della legge statale n.249/1997 e del D.P.R. n.318/1997, nonché l’eccesso di potere.
Si censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto inammissibile il ricorso avverso disposizioni regolamentari non applicate o comunque estranee alla fattispecie in esame.
Il Tar pugliese avrebbe ignorato le caratteristiche tecniche degli impianti di telefonia cellulare (stazioni radio base), progettate in modo tale da riuscire a coprire con una potenza di irradiamento molto bassa, un limitato ambito territoriale detto “cella”.
Da ciò deriva la legittimazione di Wind ad impugnare tutte le prescrizioni regolamentari immediatamente lesive in quanto determinanti una particolare difficoltà nella disponibilità di aree che abbiano le caratteristiche tecniche necessarie per assicurare la dovuta “copertura” della rete.
In ultimo si reitera la censura sul difetto di istruttoria del regolamento comunale.
Con il quinto motivo si deduce violazione di legge in relazione agli artt.31 e 32 della legge n.1150/1942, 1 e 4 della legge n.10/77, 4 della legge n.493/1993, 1 e 3 della legge n.241/1990, nonché eccesso di potere.
Si contesta l’assoggettamento delle antenne a concessione edilizia e non ad autorizzazione, anche di antenne di modeste dimensioni che non producono volumi o superfici, determinanti aumento del peso insediativo; si invoca anche la normativa sopravvenuta di cui al d.lgs. n.198/2002.
Con il sesto motivo si lamenta violazione di legge in relazione all’art.4 del D.M. n.381/1998, alla legge n.249/1997, ed all’art.16 della legge n.36/2001.
Si censura la previsione di fasce di rispetto che non sarebbe possibile stabilire per impianti diversi dagli elettrodotti in base a quanto previsto dalla legge n.36/2001.
Con il settimo motivo si deduce ancora violazione di legge ed eccesso di potere sotto svariati profili.
La normativa statale ritiene assolutamente compatibile – nel rispetto dei valori di cautela dettati dal Governo – gli impianti fissi di telefonia con i nuclei residenziali, ivi compresi edifici adibiti a sedi di convivenza.
Il divieto generalizzato ed assoluto di installazione di impianti nel centro abitato, fondato sul criterio della distanza contrasta con la normativa statale, ed è stato adottato senza fondamento scientifico e giuridico.

DIRITTO

L’appello è fondato per quanto di ragione.
In primo luogo si deve rilevare che la sentenza, non impugnata sul punto con appello incidentale, ha ritenuto non giustificato il diniego di sanatoria fondato semplicemente sulla circostanza dell’essere l’impianto sito in centro abitato, senza alcuna precisazione circa la prossimità a siti o ricettori sensibili, a distanza inferiore a fasce di rispetto, o ad altri valori estetici da tutelare anche se ha poi respinto il ricorso ritenendo giustificato il diniego per contrasto dell’impianto con la disciplina delle altezze delle costruzioni.
Si pone in questo caso la questione relativa al regime di appellabilità delle sentenze che respingono il ricorso giurisdizionale avverso provvedimento basato su plurimi motivi, ritenendo un motivo legittimo ed altro illegittimo (ma insufficiente a pronunciare l’annullamento stante l’autosufficienza dell’altro).
In via generale nel processo civile l’interesse e la
legittimazione ad impugnare si stabiliscono sulla base del dispositivo e non in base alla mera motivazione.
L’interesse ad impugnare – rileva la Cassazione - sussiste solo in presenza della soccombenza, intesa come situazione di fatto nella quale la sentenza di primo grado abbia tolto o negato alla parte un bene della vita accordandolo all’avversario, ed abbia quindi concretamente determinato per la stessa una condizione di sfavore, a vantaggio della controparte; una situazione di soccombenza in primo grado che sia invece soltanto teorica - ravvisabile quando la parte, pur vittoriosa, abbia però visto respingere talune delle sue tesi od eccezioni, ovvero taluni dei suoi sistemi difensivi, od anche abbia visto accolte le sue conclusioni per ragioni diverse da quelle prospettate - non fa sorgere l’interesse ad appellare, e non legittima un’impugnazione, né principale, né incidentale, ma impone alla parte, vittoriosa nel merito, soltanto l’onere di manifestare in maniera esplicita e precisa la propria volontà di riproporre le domande ed eccezioni respinte o dichiarate assorbite nel giudizio di primo grado, onde superare la presunzione di rinuncia, e quindi la decadenza di cui all’art.346 c.p.c.; detta presunzione di rinuncia è peraltro riferibile soltanto a domande ed eccezioni in senso proprio, e non già a mere argomentazioni giuridiche o a questioni di fatto e di diritto addotte a sostegno di tali domande o eccezioni, da intendersi implicitamente richiamate con la proposizione dell’impugnazione o con l’istanza di rigetto di questa (Cass., sez. lav., 25/7/1994, n.6903).
Nel processo amministrativo ciò può avere dei temperamenti, trattandosi di un processo di impugnativa di atti, quando esperito in giurisdizione generale di legittimità, e si pensi alla situazione del ricorrente vittorioso per alcuni motivi, e non per altri, dichiarati assorbiti, che può avere interesse ad impugnare la sentenza al fine di ottenere una riedizione del potere integralmente satisfattiva.
Particolare considerazione – per non essere stata a sufficienza indagata - merita la posizione dell’amministrazione resistente, che si trovi ad essere – come nella specie - (in apparenza) pregiudicata dalla mera motivazione di una sentenza, che sostanzialmente abbia accolto un motivo di ricorso, senza poi pronunciare l’annullamento dell’atto impugnato – richiesto dal ricorrente - per la sufficienza della restante parte della motivazione dell’atto (retto su plurimi profili di fatto e di diritto da aggredire separatamente e contestualmente al fine di minarne il fondamento) a reggere il provvedimento.
Si tratta di un tema arduo: collegato a quello dell’eventuale effetto conformativo da riconoscersi ad una sentenza di rigetto.
Va rilevato che, nell’ottica tradizionalmente accolta dalla giurisprudenza che tiene ferma la natura impugnatoria del processo amministrativo, può ritenersi che la motivazione contenuta nel predetto capo-motivo della sentenza impugnata, non legittimi il Comune all’impugnazione, poiché il rigetto non ha attitudine ad innovare la situazione sostanziale cristallizzata nell’atto, ma accerta l’infondatezza dell’azione proposta dal ricorrente.
La giurisprudenza del Consiglio in proposito ha cercato di individuare alcuni criteri che creano pregiudizio al soccombente teorico legittimandolo all’impugnazione ma ciò è avvenuto soprattutto con riferimento all’accoglimento non integralmente satisfattorio; ad es. per C. Stato, sez.IV, 16/10/1998, n.1305 l’interesse ad impugnare in appello una sentenza dei Tar va desunto dall’utilità giuridica (e non di mero fatto) che dall’eventuale accoglimento del gravame possa derivare alla parte che lo propone, ma si collega necessariamente alla soccombenza, anche parziale, nel precedente giudizio, mancando la quale l’impugnazione è inammissibile; pertanto, deve escludersi l’interesse della parte integralmente vittoriosa ad impugnare la sentenza al solo fine di ottenere una modificazione della motivazione, salvo il caso che da quest’ultima possa dedursi un’implicita statuizione contraria all’interesse della parte medesima, nel senso che a questa possa derivare pregiudizio da motivi che, quale premessa necessaria della decisione, siano suscettibili di formare giudicato.
L’ultimo inciso è interessante: la giurisprudenza quindi legittima all’appello avverso la motivazione, indipendentemente dalla posizione di soccombenza basata sul dispositivo, le quante volte la motivazione sia suscettibile di formare giudicato in pregiudizio di una parte (per CdS, IV, n.1305/1998 un indice di questa attitudine della motivazione è ricavabile dal suo essere premessa necessaria della decisione).
La circostanza si verifica di frequente – lo attesta la giurisprudenza - con riguardo al ricorrente in primo grado che sia vittorioso, ma si sia visto rigettare alcuni motivi di ricorso o colorare in un certo modo l’accoglimento che, altrimenti, avrebbe assicurato una piena satisfattività dell’azione, un pieno soddisfacimento dell’interesse azionato (nella riedizione del potere peserà infatti il rigetto di alcuni motivi e non di altri o la particolare colorazione della motivazione).
Meno chiara è la situazione rispetto all’amministrazione resistente: una motivazione di accoglimento di un motivo non decisivo ai fini dell’annullamento dell’atto impugnato non è chiaro se possa incidere sull’assetto sostanziale degli interessi disciplinato dal provvedimento impugnato.
Il punto decisivo allora è quello dell’eventuale effetto conformativo della sentenza amministrativa di rigetto, invero negato dalla giurisprudenza e dalla dottrina prevalente.
Rispetto ad una sentenza di rigetto del ricorso – si è
detto - non può parlarsi di giudicato in senso proprio, producente cioè effetti sfavorevoli sui punti decisi nei confronti di soggetti diversi dal ricorrente o da eventuali interventori, in quanto tale sentenza, non producendo effetti costitutivi o innovativi rispetto al precedente assetto di rapporti sostanziali, ha il solo effetto di dichiarare infondate le censure proposte dal ricorrente, a tutela dei suoi esclusivi interessi sostanziali, e non anche quello di dichiarare legittimo l’atto impugnato, e ciò tanto meno nei confronti di soggetti che, pur se chiamati in giudizio, abbiano avuto la possibilità di impugnare o abbiano per proprio conto impugnato, con atto separato, lo stesso provvedimento (C. Stato, sez.VI, 21/2/1997, n.305).
La conseguenza sarà l’impermeabilità dell’atto alla sentenza di rigetto con conseguente superfluità di ogni impugnazione.
Nella specie le considerazioni del giudice sul motivo di impugnazione proposto avverso il diniego di sanatoria nella parte in cui riteneva contrastante con lo strumento urbanistico la localizzazione della stazione radio base nel centro abitato sono state sostanzialmente accolte, esse tuttavia non possono considerarsi decisive per la decisione, per non costituirne una premessa necessaria: inoltre la posizione della amministrazione, sul punto, è solo di mera soccombenza teorica (ossia priva di pregiudizio pratico), se è vero che l’atto è rimasto integro nel suo contenuto provvedimentale e non è stato formalmente toccato nel suo impianto motivatorio.
Al contrario – ove si ammetta l’effetto conformativo della sentenza di rigetto in consonanza alla dottrina minoritaria che tende a valorizzare il contenuto di accertamento insito nella sentenza amministrativa – dovrà ammettersi che l’atto è dimidiato – per effetto della sentenza - nel suo contenuto motivatorio (e ciò anche in assenza – e qui risiede il problema, della statuizione di formale annullamento; per stare al caso di specie ad es. l’istanza di sanatoria potrebbe essere ripresentata per una minore altezza, e non potrebbe essere negata sulla mera circostanza che le antenne sono situate in centro abitato).
Ed allora, muovendosi in tale ultima prospettiva, dovrebbe affermarsi che se è inammissibile per difetto d’interesse l’appello avverso parte della motivazione della sentenza di primo grado non avente rilevanza ai fini della statuizione adottata e pronunciata nel dispositivo, (C. Stato, sez.VI, 20/4/1985, n.157) all’inverso sarebbe sempre ammissibile l’appello se la motivazione rilevasse ai fini della statuizione finale.
La statuizione contenuta nella sentenza amministrativa, per la peculiarità del rapporto processuale amministrativo, non sarebbe configurata solo dal dispositivo ma anche dalla motivazione (ed in tutti i casi ossia sia nel caso di sentenza di annullamento, sia nel caso di sentenza di rigetto).
Da ciò conseguirebbe la necessità per il Comune di appellare la sentenza recante considerazioni favorevoli al ricorrente poiché tali considerazioni sono suscettibili di passare in cosa giudicata determinando un assetto di interessi in parte diverso da quello programmato nell’atto.
In tale ipotesi la sentenza sarebbe passata in giudicato sul punto relativo alla possibilità di installare le stazioni radio base nel centro abitato, salvo la verifica concreta di incompatibilità specifiche.
Ritiene il Collegio – pur apprezzando la profondità di alcuni argomenti portati a favore dell’ammissibilità di un contenuto di accertamento della sentenza di rigetto, avente riflessi anche sul rapporto sottostante - che tale prospettiva non possa essere accolta e che, quindi, la sentenza di rigetto, non abbia, in assenza dell’annullamento dell’atto, attitudine ad innovare l’ordine giuridico, quale che sia la portata della sua motivazione, per i limiti connaturati al processo amministrativo che è processo di impugnativa di atti e non su rapporto (al di fuori dei casi di giurisdizione esclusiva e su diritti) (in tal senso CdS, Ad. plen. 21 ottobre 1980 n.37 afferma con chiarezza che il giudice di appello conosce dell’atto impugnato e non della sentenza).
La pronuncia sul capo di domanda relativo all’illegittimità dell’installazione dell’antenna nel centro abitato è quindi valutabile dal giudice di secondo grado, poiché anche in assenza di un motivo specifico dell’appello principale che investa tale capo (per chiederne la conferma), non è applicabile l’art.329 comma 2 c.p.c. per cui “l’impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate”; non potendosi configurare acquiescenza dell’appellante rispetto a capi della sentenza a sé favorevoli (e non può quindi considerarsi legittimo l’atto, sotto quel particolare profilo motivatorio giudicato illegittimo dal giudice di primo grado solo perché l’appellante non ha chiesto al giudice d’appello di confermare il giudizio del giudice di primo grado).
Tale oggetto del giudizio viene quindi, in assenza di motivi di appello e di specifiche eccezioni dell’appellato ad essere traslato automaticamente innanzi al giudice di secondo grado che, tuttavia, potrà riformare in melius la sentenza di primo grado solo in presenza di specifiche deduzioni dell’appellato ex art.346 c.p.c. (senza delle quali si intende rinunciato ogni eccezione tendente ad ottenere la riforma del capo della sentenza).
In assenza di deduzioni specifiche opererà, infatti, il divieto di reformatio in peius (non trattandosi di questione sulla quale è possibile che il giudice si pronunci d’ufficio, essendo relativa alla valutazione, nel merito, di un motivo di ricorso e delle eccezioni che ne imporrebbero il rigetto).
Nella specie il Comune non ha specificamente ed espressamente riproposto gli argomenti relativi all’incompatibilità della localizzazione con il centro abitato, limitandosi a difendere l’astratta possibilità di una disciplina regolamentare tesa alla minimizzazione dell’impatto delle installazioni di stazioni radio base ed a richiamare i limiti previsti dagli strumenti urbanistici in tema di altezze.
Ciò comporta, per effetto del principio devolutivo e del divieto di reformatio in peius della sentenza nelle parti favorevoli all’appellante, che è ormai pacifico fra le parti, tanto da non dover costituire più oggetto di giudizio da parte del giudice, che il regolamento non ha posto divieti assoluti di installazione delle antenne nel centro abitato, e che l’unica questione rilevante è quella relativa al mancato rispetto dell’altezza, di mt. 11 prevista espressamente per le costruzioni.
La questione centrale della controversia – a questo punto - è quella proposta con il primo motivo del ricorso d’appello (già oggetto del primo motivo del ricorso di primo grado) relativa all’applicabilità del limite delle altezze dettato per le costruzioni ad impianti tecnologici come le stazioni radio base (nella specie costituita da due antenne ed un ponte radio ubicate a ridosso di un preesistente palo Enel).
Ritiene il Collegio che non sia ammissibile l’applicazione analogica di limiti in materia di altezza dettati con riferimento a diverse strutture e manufatti di rilievo urbanistico ed edilizio.
In assenza di specifiche prescrizioni deve ritenersi che la realizzazione degli impianti predetti non sia soggetta a prescrizioni urbanistico edilizie preesistenti, dettate con riferimento ad altre tipologie di opere, elaborate quindi con riferimento a possibilità di diversa utilizzazione del territorio, nell’inconsapevolezza del fenomeno della telefonia mobile e dell’inquinamento elettromagnetico in generale.
Il titolo concessorio non può essere negato se non con riguardo ad una specifica disciplina conformativa che prenda in considerazione le reti infrastrutturali tecnologiche necessarie per il funzionamento del servizio pubblico.
La sentenza impugnata riconosce che l’applicazione analogica non può basarsi sull’assunto di una supposta equivalenza in termini edilizi fra il concetto di costruzione e quello di impianto tecnologico, nella specie un’antenna dotata di caratteristiche del tutto diverse da quelle delle costruzioni in senso proprio.
Infatti gli impianti tecnologici normalmente non sviluppano volumetria o cubatura, se non limitatamente ai basamenti o alle cabine accessorie, non determinano ingombro visivo paragonabile a quello delle costruzioni, non hanno l’impatto sul territorio degli edifici in cemento armato o muratura.
Inoltre le stazioni radio base, per esigenze di irradiamento del segnale, si sviluppano normalmente in altezza, tramite strutture metalliche, pali o tralicci, talora collocate su strutture preesistenti, su lastrici solari, su tetti, a ridosso di pali.
Queste caratteristiche peculiari devono essere oggetto di una valutazione separata e distinta del fenomeno, che il comune può ben compiere nell’esercizio della sua potestà regolamentare, in astratto, in via generale, ma con riguardo allo specifico fenomeno delle infrastrutture telefoniche, non potendosi applicare in via analogica una normativa edilizia concepita per altri scopi e diretta a regolamentare altre forme di utilizzazione del territorio.
Il giudice di primo grado recupera l’applicabilità della normativa edilizia, in via analogica, dalla circostanza della sottoposizione a concessione, e dalla rilevanza del contesto nel quale l’impianto deve inserirsi ritenendo la limitazione esistente in funzione della tutela di beni e valori esistenti nel contesto di riferimento.
Ma questa opera di interpretazione integrativa ed analogica, pur ispirata a finalità costituzionalmente orientate, non è consentita, in difetto di sufficienti tratti di analogia dei fenomeni da regolare (non potendosi equiparare costruzioni ed impianti tecnologici), né può legittimarsi solo per l’esistenza di un esigenza conservativa di nuclei ambientali e contesti (che trovano in altre normative i loro presidi) e finendo per risolversi in una valutazione discrezionale, fatta caso per caso, in relazione al contesto urbanistico e paesaggistico nel quale l’impianto va ad inserirsi della esistenza degli estremi per applicare i limiti di piano.
L’applicazione analogica di una normativa dettata per gli edifici agli impianti tecnologici, se consentita, non può non valere con riferimento a tutti gli impianti , indipendentemente dal contesto urbanistico nel quale essi sono inseriti, dovendo altrimenti concludersi nel senso di una diversa considerazione del medesimo manufatto in dipendenza di esigenze di forte protezione conservativa di alcune aree, con inammissibile sovrapposizione dell’apprezzamento dell’interprete (orientato nel senso di perseguire alcune finalità di protezione) all’operatività dei canoni dell’interpretazione.
Da ciò deriva l’accoglimento, sul punto, dell’appello (ed il conseguente annullamento degli atti di diniego di sanatoria del 18/6/2001 e di successiva diffida del 28/7/2001 impugnati con ricorso originario e dell’atto di ingiunzione a demolire del 12/10/2001 impugnato con i motivi aggiunti), salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione, che potranno aver cura anche dell’interesse paesaggistico, non espressamente valutato negli atti impugnati (se non nella prima ingiunzione a demolire del 14/7/2000 sulla quale è sopravvenuta l’improcedibilità del ricorso di primo grado, come dichiarato dalla sentenza di primo grado e come è pacifico fra le parti, per l’intervento dei citati provvedimenti successivi ora annullati) e considerato nella memoria del 14/1/2003 del Comune di Ostuni presentata in grado d’appello.
La possibilità, al ricorrere dei presupposti previsti dal legislatore, della sanatoria di opere edilizie ai sensi dell’art.13 l. n.47 del 1985 non è preclusa, infatti, dalla sottoposizione dell’area interessata dall’intervento a vincolo paesistico, dovendo tuttavia l’interessato conseguire, seppure in via postuma, l’autorizzazione di cui all’art.7 l. n.1497 del 1939 (C. Stato, sez. VI, 21/2/2001, n.913.)
Vanno poi valutati i motivi di appello (ed i motivi di ricorso di primo grado riproposti mediante l’impugnazione della sentenza) diretti avverso l’atto regolamentare e la variante di PRG, che possono trattarsi unitariamente per la loro stretta connessione logica e rispetto ai quali la società appellante ha immediato interesse all’impugnazione, essendo soggetto che quale operatore economico che deve assicurare un determinato servizio in ambito comunale, vede il proprio interesse imprenditoriale direttamente inciso dalla normativa adottata.
Sul punto è intervenuta la sentenza CdS, VI, 30 luglio 2003 n.4392, che, su analoga impugnativa degli stessi atti proposta dalla società OMNITEL, ne ha disposto l’annullamento: pertanto, in forza dell’esecutività della sentenza citata, può essere dichiarata, sui motivi di impugnazione relativi agli atti presupposti, la sostanziale cessazione della materia del contendere.
L’appello è quindi in parte accolto mentre per la restante parte va rilevata l’intervenuta cessazione della materia del contendere.
Sussistono giusti motivi per compensare le spese del giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie in parte il ricorso in appello indicato in epigrafe ed, in riforma della sentenza impugnata, per l’effetto accoglie in parte il ricorso di primo grado ed annulla il diniego di sanatoria del 18/6/2001, ed i consequenziali atti di diffida del 28/7/2001 e di ingiunzione a demolire del 12/10/2001 impugnata con i motivi aggiunti; dichiara per il resto cessata la materia del contendere.
Compensa tra le parti le spese di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2003, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:


Mario Egidio SCHINAIA Presidente
Luigi MARUOTTI Consigliere
Carmine VOLPE Consigliere
Giuseppe ROMEO Consigliere
Giancarlo MONTEDORO Consigliere Est.