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Sentenza n. 336 del 27 luglio 2005

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Fernanda CONTRI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
- Francesco AMIRANTE
- Ugo DE SIERVO
- Romano VACCARELLA
- Paolo MADDALENA
- Alfio FINOCCHIARO
- Alfonso QUARANTA
- Franco GALLO

Presidente

Giudice

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SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 86, 87, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 94 e 95, nonché dell'allegato n. 13, del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), promossi con ricorsi delle Regioni Toscana e Marche notificati il 5 e il 13 novembre 2003, depositati in cancelleria il 14 e il 19 successivi ed iscritti ai nn. 79 e 80 del registro ricorsi 2003.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 24 maggio 2005 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;
uditi gli avvocati Fabio Lorenzoni per la Regione Toscana, Stefano Grassi per la Regione Marche e l'avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.¾ Le Regioni Toscana e Marche hanno proposto questione di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche).
Entrambe le ricorrenti hanno impugnato gli artt. 86, 87, 88, 89, 93 e 95, nonché l'allegato n. 13, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione; la Regione Marche ha denunciato anche il contrasto degli artt. 90, 91, 92 e 94, nonché degli artt. 86, comma 8, 87, comma 3, 88, comma 1, 89, comma 5, 92, 93, 94 e 95 in connessione con l'allegato n. 13, con gli artt. 117 e 118 della Costituzione.
La materia disciplinata dal Codice, esordiscono le ricorrenti, non è riconducibile ai titoli di legislazione esclusiva statale, ma ricade in ambiti di competenza legislativa concorrente quali l'ordinamento della comunicazione, il governo del territorio, la tutela della salute, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell'energia, e, per alcuni profili, tocca materie di competenza residuale quali l'industria e il commercio, l'urbanistica e l'edilizia, i lavori pubblici. Allo Stato dovrebbe quindi essere, tutt'al più, riservata la predisposizione dei principî fondamentali, restando al legislatore regionale la disciplina sostanziale e procedimentale. Ebbene, con tutte le disposizioni impugnate, secondo i ricorsi regionali, il legislatore statale definirebbe al contrario una regolamentazione minuziosa, dettagliata, autoapplicativa, direttamente operante nei confronti dei privati interessati, comprimendo così la sfera costituzionale di autonomia legislativa delle Regioni e violando le regole di riparto di cui all'art. 117 Cost.
Sempre in via generale, le ricorrenti denunciano il contrasto della disciplina statale con l'art. 118 Cost., giacché le norme impugnate attribuirebbero direttamente l'esercizio di funzioni amministrative agli enti locali, disciplinando il relativo procedimento, laddove tali funzioni dovrebbero essere conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze. Né ricorrerebbero, nel caso di specie, le condizioni che legittimano l'attrazione in via sussidiaria delle funzioni amministrative da parte dello Stato.
Le disposizioni del Codice, si aggiunge nel ricorso della Regione Toscana, non potrebbero trovare il loro fondamento nella potestà statale di definire le funzioni fondamentali degli enti locali, non potendo certo considerarsi “funzione fondamentale” l'attribuzione di una singola competenza autorizzativa in materia di impianti; né le norme censurate, proseguono entrambe le ricorrenti, potrebbero essere legittimate dal fatto di essere attuative di direttive comunitarie, perché tale attuazione spetterebbe alle Regioni nelle materie di propria competenza (art. 117, quinto comma, Cost.).
Censure più specifiche sono indirizzate da entrambe le ricorrenti nei confronti degli artt. 86, 87, 88, 89, 93 e 95 nonché dell'allegato n. 13, mentre la sola Regione Marche impugna anche gli articoli 90, 91, 92 e 94 del d.lgs. n. 259 del 2003.
Segnatamente l'art. 86, che reca disposizioni sulle infrastrutture di comunicazione elettronica e sui diritti di passaggio, assimilando le infrastrutture di cui agli artt. 87 e 88 alle opere di urbanizzazione primaria, anche se di proprietà privata degli operatori, invaderebbe la competenza regionale in materia di governo del territorio nonché di urbanistica ed edilizia con una disciplina di dettaglio, che non lascerebbe alcuno spazio alla competenza concorrente regionale.
Quanto all'art. 87, che disciplina il procedimento autorizzatorio per l'installazione e la modifica delle infrastrutture ed assegna tale competenza agli enti locali, esso sarebbe incostituzionale sotto molteplici profili. In primo luogo, prevederebbe una disciplina dettagliata in materia che rientrerebbe nella competenza regionale concorrente; inoltre, obbligherebbe al rispetto degli obiettivi di qualità stabiliti uniformemente a livello nazionale, facendo così venire meno la competenza regionale a determinare tali obiettivi. Infine sarebbero illegittime anche la disciplina della conferenza dei servizi recata dai commi 6, 7 e 8 dell'art. 87, nella parte in cui estende la regola della maggioranza all'adozione dell'atto finale, prevede una sola ipotesi di dissenso qualificato ed affida al Consiglio dei ministri la relativa decisione; come pure la previsione concernente il silenzio-assenso per la localizzazione degli impianti, che priverebbe il legislatore regionale di ogni potestà programmatoria. Secondo la Regione Marche, la previsione del silenzio-assenso con l'indicazione del termine nel quale esso si forma, recata dall'art. 87, comma 9, sarebbe lesiva della competenza legislativa regionale, perché non lascerebbe alla Regione alcun potere di definire, pur sempre nel quadro dei principî fissati dalla legge statale, termini diversi o altre forme di semplificazione amministrativa.
Illegittimi sarebbero pure, a giudizio di entrambe le ricorrenti, gli articoli 88, 89 e 93. Il primo definisce un procedimento analogo a quello dell'art. 87, con la previsione della conferenza di servizi e del silenzio-assenso, per l'autorizzazione volta alla installazione di infrastrutture che interessano aree di proprietà di più enti pubblici e fissa regole affinché gli enti pubblici definiscano i programmi di manutenzione ordinaria e straordinaria delle rispettive opere. Nei suoi confronti si indirizzano pertanto le medesime censure formulate nei confronti dell'art. 87. L'art. 89 definisce le regole di condivisione dello scavo e di coubicazione dei cavi; l'art. 93 prevede che gli operatori di reti di comunicazione elettronica debbano tenere indenne l'ente locale o l'ente proprietario dalle spese necessarie per le opere di sistemazione delle aree pubbliche coinvolte dagli interventi di installazione e manutenzione, fatte salve le tasse e gli oneri di concessione. Le disposizioni testé menzionate recherebbero regolazioni di puntuale dettaglio in ambiti materiali affidati alla competenza concorrente (“governo del territorio”, “ordinamento della comunicazione” e “tutela della salute”).
L'art. 95, nel disciplinare gli impianti e le condutture di energia elettrica, prescrive che venga richiesto all'Ispettorato del Ministero delle comunicazioni il nulla osta sul progetto relativo a qualunque costruzione, modifica o spostamento di condutture di energia elettrica. Così disponendo, ad avviso della Regione Toscana, esso si porrebbe in contrasto con gli artt. 117 e 118 della Costituzione, in quanto attribuisce ad un organo statale la competenza a pronunciarsi sui progetti relativi ad opere, come le condutture di energia elettrica e le tubazioni metalliche sotterrate, che dovrebbero essere disciplinate dalla Regione. Lo Stato avocherebbe competenze attinenti ad una materia di potestà concorrente, senza rispettare i criteri di esercizio della competenza sussidiaria, come fissati da questa Corte nella sentenza n. 303 del 2003. Il medesimo art. 95, secondo la Regione Marche, in materie di competenza concorrente quali l'ordinamento della comunicazione e il governo del territorio, recherebbe una disciplina autoapplicativa estremamente dettagliata.
L'allegato n. 13 del decreto legislativo impugnato determina il contenuto dei modelli da usare nella presentazione dei titoli abilitativi, e dunque, secondo la prospettazione dei ricorsi, non solo non reca disposizioni di principio, come l'art. 117 della Costituzione imporrebbe in materie di competenza concorrente, ma integra l'esercizio di una vera e propria potestà regolamentare, che lo Stato non può legittimamente esercitare in materie diverse da quelle riservate alla sua competenza esclusiva, neppure ove si voglia riconoscere ai regolamenti emanati nelle materie di competenza regionale il carattere della cedevolezza.
Gli artt. 90, 91, 92 e 94 sono impugnati dalla sola Regione Marche. Le disposizioni in parola, che disciplinano l'acquisizione dei beni immobili necessari alla realizzazione degli impianti (art. 90), la limitazione legale della proprietà (art. 91) e l'imposizione di servitù (artt. 92 e 94), porrebbero una disciplina di dettaglio in materia riservata alla competenza concorrente (ordinamento della comunicazione, governo del territorio, tutela della salute) o comunque residuale (edilizia e urbanistica) della Regione.
Alcune disposizioni, e specificamente l'art. 86, comma 8, l'art. 87, comma 3, l'art. 88, comma 1, gli artt. 89, comma 5, 92, 93, 94, 95 e l'allegato n. 13, disciplinando il contenuto dei modelli da presentare per le domande di autorizzazione e per gli altri adempimenti amministrativi connessi con l'installazione e l'esercizio degli impianti, sarebbero espressione di una potestà regolamentare che lo Stato non potrebbe esercitare in materie, come quelle disciplinate, che non ricadono nella propria sfera di legislazione esclusiva.
Tutte le disposizioni impugnate sarebbero illegittime poiché costituirebbero esercizio diretto di funzioni amministrative, assumendo natura provvedimentale, e comunque attribuirebbero funzioni amministrative ad organi dell'amministrazione statale o direttamente ad enti locali senza rispettare le condizioni poste nell'art. 118 della Costituzione e segnatamente il principio di sussidiarietà, come interpretato da questa Corte nella sentenza n. 303 del 2003.
Inoltre, aggiunge la Regione Marche, il medesimo art. 118, nel prevedere, al secondo comma, che le funzioni debbano essere conferite con legge statale o regionale secondo le rispettive competenze, vieterebbe al legislatore statale di procedere a conferimenti diretti nei confronti degli enti locali in materie di competenza concorrente o residuale. Per questo profilo sarebbero illegittimi l'art. 87, che attribuisce direttamente agli enti locali il compito amministrativo di rilasciare l'autorizzazione degli impianti di comunicazione, e gli articoli da 88 a 95.
L'art. 93, infine, per la parte in cui limita – per gli operatori – gli oneri connessi alle attività di installazione, scavo ed occupazione di suolo pubblico, sarebbe costituzionalmente illegittimo, secondo la Regione Marche, anche per contrasto con l'art. 119 Cost.
In particolare, si sostiene che il principio dell'autonomia finanziaria, sotto il profilo dell'autonomia di spesa, unitamente «alla norma secondo cui per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni», implicherebbe che tutte le funzioni amministrative spettanti alle Regioni, diverse da quelle “ordinarie”, risultino finanziate attraverso l'attribuzione diretta ai loro bilanci di risorse adeguate, senza vincoli sulle modalità di spesa.
Sotto altro profilo l'art. 119 sarebbe violato dalle disposizioni impugnate per la parte in cui impongono, sia pure indirettamente, oneri finanziari a carico delle Regioni.
2.¾ In entrambi i giudizi si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che tutte le questioni proposte siano dichiarate inammissibili e comunque infondate.
In via preliminare, e con riferimento al ricorso della Regione Toscana, si lamenta la omessa indicazione, per la gran parte delle censure, delle specifiche disposizioni costituzionali che si assumono violate.
Nel merito, si osserva che il decreto legislativo impugnato non sottrae alcuna competenza alle Regioni, alle quali si indirizza come normativa di principio, né limita le attribuzioni comunali e regionali in materia di pianificazione del territorio, giacché interviene solo sulle fasi procedimentali relative al rilascio delle autorizzazioni, al fine di semplificare l'azione amministrativa. Il decreto, continua la difesa erariale, non farebbe venire meno i poteri-doveri dei Comuni in ordine all'accertamento delle emissioni elettromagnetiche prodotte dalle infrastrutture da realizzare, né priverebbe gli enti locali del potere di accertare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge prescritti per l'installazione.
In ordine alla denunciata violazione della competenza legislativa concorrente, si osserva che in realtà la disciplina impugnata «non può prescindere» dalla materia “tutela dell'ambiente”, rimessa alla competenza legislativa esclusiva statale, dato che uno dei principali interessi cui è preordinata la procedura di autorizzazione è quello del rispetto dei limiti delle emissioni elettromagnetiche. In tale materia, di natura trasversale, il legislatore nazionale ben potrebbe fissare principî e criteri uniformi, pur quando essi incidano sulle competenze legislative regionali, tanto concorrenti quanto residuali.
Anche volendo trascurare questo argomento, continua la difesa erariale, in materie attribuite alla legislazione concorrente sarebbe comunque consentito al legislatore statale introdurre una normativa di dettaglio, ove ciò si giustifichi con l'oggettiva necessità di disciplinare funzioni amministrative di cui lo Stato è titolare in base ai principî di sussidiarietà e di adeguatezza. Nella specie il ricorso a questo titolo straordinario di competenza non richiederebbe la previa intesa fra Stato e Regione interessata, come pure si evince dalla sentenza di questa Corte n. 303 del 2003, poiché l'esercizio delle funzioni amministrative non viene sottratto agli enti locali competenti, ma solo coordinato con quello delle autorità indipendenti.
Quanto poi alle doglianze della Regione Toscana, secondo la quale allo Stato sarebbe precluso attribuire funzioni amministrative agli enti locali nelle materie assegnate alla competenza regionale residuale, l'Avvocatura replica che quando lo Stato voglia assicurare, in applicazione del principio di sussidiarietà, l'esercizio unitario di una funzione, ciò potrà fare anche attraverso il coordinamento di funzioni spettanti agli enti locali con quelle di autorità statali.
Una disciplina irragionevolmente differenziata della rete di comunicazione – si prosegue – sarebbe di ostacolo all'espletamento ottimale del servizio per tutti i cittadini e verrebbe in definitiva ad incidere sulla tutela dell'unità giuridica ed economica e in particolare sui livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, in relazione ai quali sussiste la competenza legislativa esclusiva dello Stato. Altro principio costituzionale che il decreto legislativo impugnato mirerebbe a salvaguardare sarebbe la tutela della concorrenza, che renderebbe necessaria la predisposizione di procedure certe e uniformi sull'intero territorio nazionale.
Nello specifico delle censure proposte, la difesa statale osserva, quanto all'art. 86, che l'assimilazione delle infrastrutture alle opere di urbanizzazione primaria, certamente attinente al governo del territorio, ha il limitato scopo di uniformare la natura di queste reti su tutto il territorio nazionale, senza ledere alcuna competenza locale. In relazione al sesto comma del medesimo art. 86, si soggiunge che la previsione di limiti di esposizione e valori di attenzione ai campi elettromagnetici si “ispirerebbe” alla sentenza di questa Corte n. 307 del 2003, che ha accolto i ricorsi statali contro disposizioni di leggi regionali (per quanto qui rileva, l'art. 7, comma 3, della legge della Regione Marche n. 25 del 2001), che introducevano limiti di induzione magnetica difformi da quelli fissati nella legislazione statale.
Infondate sarebbero pure le doglianze relative all'art. 87 del d.lgs. impugnato, che fissa uniformemente, a livello nazionale, obiettivi di qualità senza escludere la competenza delle leggi regionali in ordine alla localizzazione e all'attribuzione dei siti.
Quanto alla censura contro l'art. 87, commi 6, 7 e 8, essa sarebbe da respingere considerando che la decisione a maggioranza nella conferenza di servizi semplifica il procedimento amministrativo senza peraltro sacrificare il ruolo fondamentale dell'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente.
L'Avvocatura giudica, inoltre, senz'altro pretestuosa la censura che si appunta sull'art. 88, giacché la durata del periodo previsto per il perfezionamento della fattispecie del silenzio-assenso è quella tipica, e comunque è derogabile da parte degli enti locali.
Sull'art. 89, disciplinante la coubicazione e condivisione di infrastrutture, la difesa dello Stato rileva che la disposizione attiene principalmente alle funzioni dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e del Ministero, sicché, in applicazione del principio di sussidiarietà, la competenza regolatrice, anche di dettaglio, non potrebbe che spettare al legislatore nazionale. Per la stessa ragione sarebbe da respingere la questione avente ad oggetto l'art. 95: il potere di nulla osta attribuito al Ministero delle comunicazioni sarebbe espressione di una esigenza unitaria di sicurezza e funzionalità delle reti.
Gli artt. 92, 93 e 94, che disciplinano limitazioni alla proprietà e servitù, prosegue la difesa erariale, riguarderebbero la materia dell'ordinamento civile, di esclusiva competenza statale; inoltre esigenze unitarie giustificherebbero la disciplina uniforme delle procedure espropriative nell'art. 90. In riferimento all'impugnazione dell'allegato n. 13, l'Avvocatura replica che questa Corte avrebbe ammesso una disciplina statale di dettaglio anche in materie di competenza regionale quando sia esercitata una competenza legislativa sussidiaria e rileva che ciò comporterebbe necessariamente «un'analoga posizione per le relative disposizioni regolamentari».
Pure da respingere sarebbero le censure indirizzate nei confronti delle disposizioni impugnate, sul rilievo che esse attribuirebbero funzioni amministrative senza rispettare le condizioni per l'applicazione del principio di sussidiarietà. La legislazione statale al contrario risulterebbe proporzionata e ragionevole in relazione al fine di realizzare una rete di comunicazione estesa sull'intero territorio nazionale, né potrebbe dirsi violato il principio dell'intesa, che si realizzerebbe nella attuazione degli stessi procedimenti amministrativi introdotti con la normativa impugnata, procedimenti all'interno dei quali le Regioni eserciterebbero comunque le loro competenze sul territorio non diversamente dagli altri enti locali.
Insussistente sarebbe infine, a giudizio della difesa statale, la lesione dell'art. 119 Cost. da parte dell'art. 93. L'autonomia finanziaria degli enti locali non potrebbe infatti essere pregiudicata da una disposizione che si limita a condizionare l'imposizione di canoni od altri oneri ad una previsione legislativa ed obbliga per il resto gli operatori che forniscono reti di comunicazione a tenere indenni gli enti locali dalle spese necessarie per le opere di sistemazione delle aree pubbliche coinvolte.
3.— In entrambi i giudizi hanno spiegato intervento le società T.I.M. s.p.a. – Telecom Italia Mobile, Vodafone Omnitel N.V., Wind Telecomunicazioni s.p.a. e hanno chiesto che le questioni proposte siano dichiarate improponibili, inammissibili e comunque infondate. Nel solo giudizio introdotto con il ricorso n. 79 del 2003 sono intervenuti anche, ad adiuvandum della ricorrente Regione Toscana, il Codacons (Coordinamento delle Associazioni e dei Comitati per la tutela dei consumatori e dell'ambiente), nonché, con atto pervenuto fuori termine, il Comune di Roma.
4.— Tutte le parti, nonché gli intervenienti Telecom Italia Mobile s.p.a., Vodafone Omnitel N.V., Wind Telecomunicazioni s.p.a. e Codacons hanno depositato ulteriori memorie in prossimità dell'udienza pubblica del 26 ottobre 2004.
4.1.— La Regione Toscana, contestando l'ammissibilità degli spiegati interventi, svolge nel merito argomentazioni volte a confutare le tesi difensive sostenute dall'Avvocatura erariale.
Quanto all'argomento secondo cui la normativa impugnata sarebbe necessaria per assicurare l'installazione sul territorio nazionale degli impianti per la telefonia mobile di terza generazione (UMTS), si osserva che siffatto interesse non può prescindere dall'esigenza di ricercare «un punto di equilibrio tra esigenze e valori tutti parimenti tutelati dalla Carta costituzionale, anche con competenze attribuite alle Regioni».
Quanto agli invocati principî di trasparenza, tempestività e divieto di discriminazioni contenuti nella direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 7 marzo 2002 n. 2002/21/CE (che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica – direttiva quadro), lo Stato – ad avviso della ricorrente – avrebbe dovuto limitarsi a ribadirne l'obbligatorietà affidandone alla legislazione regionale l'ulteriore sviluppo, ai sensi dell'art. 117, quinto comma, Cost.
La Regione contesta poi che la normativa denunciata possa ascriversi a materie riservate allo Stato dall'art. 117, secondo comma, Cost.
Non sarebbe riconducibile, infatti, alla tutela della concorrenza, perché le norme impugnate non prevederebbero interventi promozionali per favorire lo sviluppo del mercato e misure di salvaguardia dei principî antitrust (sentenze n. 272 e n. 14 del 2004), ma si limiterebbero a stabilire un procedimento amministrativo accelerato per l'installazione degli impianti.
Neppure sarebbe invocabile la competenza esclusiva statale di cui alla lettera m) del secondo comma dell'art. 117 Cost., giacché le disposizioni denunciate non avrebbero ad oggetto «la fissazione di un livello minimo di soddisfacimento di diritti civili o sociali» (sentenze n. 88 del 2003 e n. 282 del 2002), ma soltanto la disciplina di una procedura accelerata per l'installazione degli impianti.
Né, tanto meno, si argomenta ancora nella memoria, potrebbe valere il richiamo alla materia della tutela dell'ambiente, solo marginalmente implicata dalle norme impugnate. In ogni caso, la legge statale non potrebbe esautorare del tutto la competenza legislativa regionale che venga esercitata nel rispetto degli standard fissati a livello nazionale per la tutela dell'ambiente.
Infondata sarebbe altresì la tesi per cui le disposizioni impugnate conterrebbero soltanto principî fondamentali. Esse – e in particolare gli artt. 86, 87 e l'allegato n. 13 – detterebbero invece una disciplina minuziosa, autoapplicativa, direttamente operativa nei confronti dei privati interessati. Peraltro, l'incostituzionalità dell'art. 86, che assimila, ad ogni effetto, le infrastrutture di reti pubbliche di proprietà dei privati alle opere di urbanizzazione primaria, sarebbe ancor più evidente alla luce della giurisprudenza amministrativa in materia, secondo la quale siffatta assimilazione determinerebbe la compatibilità degli impianti con qualunque destinazione urbanistica del territorio comunale, ottenendosi così il medesimo risultato previsto dall'art. 3 del d.lgs. n. 198 del 2002, dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 303 del 2003.
4.2.¾ La Regione Marche contesta in primo luogo l'ammissibilità degli atti di intervento e, nel merito, osserva che la finalità di realizzare una rete uniforme, proteggendo la salute dei cittadini dagli effetti dell'inquinamento elettromagnetico, non potrebbe giustificare la disciplina dettagliata e autoapplicativa posta dallo Stato, in quanto gli obiettivi di tutela dall'inquinamento atterrebbero alla materia di competenza concorrente della tutela della salute. Ciò sarebbe stato riconosciuto dalla stessa legge n. 36 del 2001, che attribuiva alle Regioni la competenza a definire le modalità per il rilascio delle autorizzazioni alla installazione degli impianti, nonché dalle sentenze di questa Corte n. 331 e n. 307 del 2003.
L'esigenza di una disciplina unitaria, prosegue la difesa regionale, non potrebbe trovare giustificazione nella direttiva quadro 2002/21/CE, che non altererebbe la disciplina delle competenze interne, ma si limiterebbe a porre obblighi che gravano in pari grado sulla legge statale come sulla legge regionale. Nemmeno potrebbe essere invocata, come titolo di competenza statale, la tutela della concorrenza, perché nessuna violazione della par condicio degli imprenditori interessati al settore potrebbe derivare dall'obbligo di rispettare, nel territorio regionale, le discipline regionali in tema di edilizia, governo del territorio e tutela della salute.
4.3.¾ Il Presidente del Consiglio dei ministri, ribaditi e ulteriormente sviluppati gli argomenti già svolti nell'atto di costituzione, aggiunge che la disciplina delle reti non può essere segmentata secondo le esigenze locali, ma deve essere ispirata a criteri uniformi a livello nazionale, giacché è posta a presidio di valori costituzionali fondamentali quali la libertà e segretezza delle comunicazioni, la libertà di iniziativa economica, la tutela della concorrenza.
In riferimento alla impugnazione dell'art. 86, si contesta che l'assimilazione delle infrastrutture di reti di comunicazione alle opere di urbanizzazione primaria costituisca una disciplina di dettaglio invasiva della competenza regionale e si sostiene che si tratterebbe invece della «definizione generale da attribuire a determinate opere secondo un modello unitario che consenta lo sviluppo delle reti a mezzo di metodologie uniformi».
Quanto alle doglianze relative all'art. 87, comma 1, la norma si limiterebbe a riconoscere ai Comuni il potere di installazione, ma non precluderebbe l'esercizio da parte della Regione di ulteriori poteri di disciplina, peraltro già esercitati da alcune Regioni.
Con specifico riguardo al modello della conferenza di servizi, l'Avvocatura osserva che il ruolo delle Regioni sarebbe sacrificato solo nell'ipotesi di intervento del Consiglio dei ministri necessario per risolvere un dissenso qualificato e che la stessa difesa regionale non considererebbe possibile avocare tale funzione all'ente regionale.
Pure da respingere sarebbero le censure di illegittimità per violazione della regola di riparto della potestà regolamentare; le disposizioni impugnate non avrebbero infatti alcun effetto modificatorio sui regolamenti vigenti, né sarebbe possibile attribuire carattere regolamentare a disposizioni inserite nella legge in ragione del loro contenuto. Rispetto all'art. 86, comma 8, si osserva comunque che la finalità di realizzare un unico archivio telematico nazionale giustifica la previsione di un modello di istanza configurato secondo uno schema tipizzato.
4.4.¾ Gli intervenienti T.I.M. – Telecom Italia Mobile s.p.a., Vodafone Omnitel N.V., Wind Telecomunicazioni s.p.a. e Codacons, insistono preliminarmente per l'ammissibilità degli interventi.
5.¾ All'udienza del 26 ottobre 2004, sentite le parti, è stata adottata l'ordinanza collegiale in pari data, con la quale i predetti interventi sono stati dichiarati inammissibili.
6.¾ Nell'imminenza dell'udienza pubblica del 24 maggio 2005 la Regione Toscana ha depositato una memoria con la quale ha replicato alle argomentazioni difensive svolte dalla difesa erariale. In particolare, in relazione alla inammissibilità per mancata impugnazione dell'art. 41 della legge 1° agosto 2002, n. 166 (Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti), si rileva che la legge delega non presentava alcun contenuto lesivo delle attribuzioni costituzionalmente garantite alle Regioni, in quanto si limitava a prevedere, quali criteri direttivi per l'esercizio della delega stessa, la riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti volti al rilascio delle autorizzazioni per i servizi di comunicazione elettronica e la regolazione uniforme degli stessi, non autorizzando l'emanazione di una «normativa dettagliata, puntuale e autoapplicativa», quale quella contenuta nel decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259.
Per quanto attiene, invece, alla eccepita inammissibilità per acquiescenza, conseguente all'emanazione di un parere positivo sul decreto legislativo reso in sede di Conferenza Stato-Regioni, la ricorrente osserva che la stessa non avrebbe reso alcun parere favorevole e che, in ogni caso, nei giudizi di costituzionalità in via principale non avrebbe alcun rilievo l'istituto dell'acquiescenza (si richiama la sentenza n. 74 del 2001).
Nel merito si osserva, in via preliminare, sempre in chiave di replica alle difese erariali, che il legislatore delegato non avrebbe aderito alla tesi della rete di comunicazione intesa come rete unitaria, atteso che le norme impugnate configurano le installazioni per le telecomunicazioni quali singoli impianti. In ogni caso, l'assunta unitarietà non potrebbe legittimare una attrazione statale di competenze legislative ex art. 118 della Costituzione, in quanto, da un lato, non sono disciplinate funzioni amministrative che lo Stato si riserva (essendo le stesse attribuite agli enti locali), dall'altro, mancherebbe l'intesa con le Regioni (si richiamano le sentenze n. 6 del 2004 e n. 303 del 2003).
Si osserva, inoltre, come non sussisterebbe alcun titolo di legittimazione in capo allo Stato in grado di giustificare, sul piano del riparto di competenze, le norme impugnate. In particolare, non potrebbe invocarsi: a) la materia della tutela della concorrenza, in quanto le disposizioni censurate non prevedono interventi promozionali per favorire «lo sviluppo del mercato e delle misure di salvaguardia dei principi antitrust» (si richiamano le sentenze n. 272 e n. 14 del 2004): dette disposizioni si sarebbero limitate a prevedere un procedimento amministrativo accelerato per l'installazione degli impianti; b) la “materia” dei livelli essenziali delle prestazioni, atteso che le norme in esame non avrebbero «ad oggetto la fissazione di un livello minimo di soddisfacimento di diritti civili o sociali».
Inoltre, le norme censurate non potrebbero rinvenire una propria giustificazione nell'esigenza di dare attuazione al diritto comunitario: l'art. 117, quinto comma, della Costituzione, infatti, assegnerebbe alle Regioni nelle materie alle stesse attribuite «la competenza a provvedere all'attuazione ed esecuzione degli atti comunitari».
Infine, le disposizioni impugnate non potrebbero essere considerate espressione di un principio fondamentale, in quanto contengono precetti completi che non lascerebbero alcun spazio per eventuali ulteriori normative regionali. A tal proposito, si richiama quanto previsto, in particolare, dall'art. 86 del Codice, il quale assimila le infrastrutture di telecomunicazione alle opere di urbanizzazione primaria, con conseguente possibilità che tali impianti siano compatibili con ogni destinazione urbanistica del territorio.
6.1.¾ Nell'imminenza dell'udienza pubblica del 24 maggio 2005 hanno depositato memorie anche gli intervenienti: Codacons (fuori termine); Wind Telecomunicazioni s.p.a.; Vodafone Omnitel N.V.
Considerato in diritto
1.— Le Regioni Toscana e Marche, con distinti ricorsi (ric. nn. 79 e 80 del 2003) hanno impugnato il decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche) censurando, in particolare, entrambe le ricorrenti, gli artt. 86, 87, 88, 89, 93 e 95, nonché l'allegato n. 13, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione e soltanto la Regione Marche anche gli artt. 90, 91, 92 e 94, nonché gli artt. 86, comma 8, 87, comma 3, 88, comma 1, 89, comma 5, 92, 93, 94 e 95 in connessione con l'allegato n. 13, per contrasto con gli artt. 117 e 118 della Costituzione.
2.— Considerata la sostanziale identità della materia trattata nei due ricorsi, si dispone la riunione dei giudizi perché gli stessi siano decisi con unica sentenza.
3.— Hanno spiegato intervento in giudizio le società T.I.M. – Telecom Italia Mobile s.p.a., Wind Telecomunicazioni s.p.a., Vodafone Omnitel N.V., nonché il Codacons (Coordinamento delle associazioni e dei comitati per la tutela dei consumatori e dell'ambiente) ed il Comune di Roma.
All'udienza del 26 ottobre 2004, sentite le parti, è stata adottata l'ordinanza collegiale in pari data, con la quale i predetti interventi sono stati dichiarati inammissibili. Ciò in base al consolidato orientamento di questa Corte, secondo il quale nei giudizi di legittimità costituzionale proposti in via principale non è ammessa la presenza di soggetti diversi dalla parte ricorrente e dal titolare della potestà legislativa il cui esercizio sia oggetto di contestazione (v., da ultimo, sentenze n. 150 del 2005, n. 167 e n. 166 del 2004).
4.— Prima di procedere alla disamina delle singole questioni di legittimità costituzionale sollevate, appare opportuno premettere alcune considerazioni di ordine generale sulle ragioni che hanno condotto all'emanazione del Codice, le cui disposizioni formano oggetto di impugnazione.
4.1.— Con tale Codice l'Italia ha recepito le direttive quadro del Parlamento europeo e del Consiglio sulle comunicazioni elettroniche del 7 marzo 2002 (direttiva 2002/19/CE, relativa all'accesso alle reti di comunicazione elettronica e alle risorse correlate, e all'interconnessione delle medesime – direttiva accesso; direttiva 2002/20/CE, relativa alle autorizzazioni per le reti e i servizi di comunicazione elettronica – direttiva autorizzazioni; direttiva 2002/21/CE, che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica – direttiva quadro; direttiva 2002/22/CE, relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica – direttiva servizio universale).
La finalità perseguita, con tali direttive, è il superamento delle situazioni di monopolio del settore, mediante la progressiva diminuzione dell'intervento gestorio delle autorità pubbliche e la incentivazione di un vasto processo di liberalizzazione delle reti e dei servizi nei settori convergenti delle telecomunicazioni, dei media e delle tecnologie dell'informazione (cfr. quinto considerando della direttiva 2002/21/CE), secondo le linee di un ampio disegno europeo tendente ad investire l'intera area dei servizi pubblici. Le disposizioni introdotte prevedono, infatti, una serie di misure regolatorie destinate ad incidere sul comportamento delle imprese e che dovrebbero condurre ad una completa operatività delle regole della concorrenza.
A tali fini, le citate direttive regolamentano «i servizi» e le «reti» di comunicazione elettronica e cioè in generale «i mezzi di trasmissione», escludendo espressamente dal proprio campo di applicazione la disciplina dei «contenuti dei servizi» – quali quelli relativi alle emissioni radiotelevisive, ai servizi finanziari e a taluni servizi della società della informazione (quinto considerando della direttiva 2002/21/CE) – forniti mediante i predetti sistemi di comunicazione. Questa separazione non incide – si puntualizza nel quinto considerando della direttiva quadro 2002/21/CE – «sul riconoscimento dei collegamenti» fra i due aspetti dei contenuti e dei mezzi di trasmissione «al fine di garantire il pluralismo dei mezzi di informazione, la diversità culturale e la protezione dei consumatori» (cfr. anche sentenza n. 331 del 2003).
Nel presente giudizio di costituzionalità rileva esclusivamente la normativa inerente alle «reti di comunicazione elettronica», la cui definizione è contenuta nell'art. 2, par. 1, lettera a) della citata direttiva 2002/21/CE, secondo cui per rete devono intendersi: «i sistemi di trasmissione e, se del caso, le apparecchiature di commutazione o di instradamento e altre risorse che consentono di trasmettere segnali via cavo, via radio, a mezzo di fibre ottiche o con altri mezzi elettromagnetici, comprese le reti satellitari, le reti terrestri mobili e fisse (a commutazione di circuito e a commutazione di pacchetto, compresa Internet), le reti utilizzate per la diffusione circolare dei programmi sonori e televisivi, i sistemi per il trasporto della corrente elettrica, nella misura in cui siano utilizzati per trasmettere i segnali, le reti televisive via cavo, indipendentemente dal tipo di informazione trasportato» (tale definizione è stata integralmente trasposta, a livello interno, nella lettera dd dell'art. 1, comma 1, del Codice).
La normativa comunitaria prescrive, inoltre, che le procedure «previste per la concessione del diritto di installare» le predette infrastrutture di comunicazione elettronica debbano essere «tempestive, non discriminatorie e trasparenti, onde assicurare che vigano le condizioni necessarie per una concorrenza leale ed effettiva» (ventiduesimo considerando della direttiva 2002/21/CE). In particolare, l'art. 11, par. 1, della direttiva quadro – di cui le norme impugnate costituiscono specifica attuazione – stabilisce che gli Stati membri, nell'esaminare una domanda per la concessione del diritto di installare strutture su proprietà pubbliche o private, richiesta da un'impresa autorizzata a fornire reti di comunicazione elettronica, assicurino che l'autorità competente «agisca in base a procedure trasparenti e pubbliche, applicate senza discriminazioni né ritardi; e rispetti i principî di trasparenza e non discriminazione nel prevedere condizioni per l'esercizio di tali diritti».
Emerge, dunque, dalle suddette disposizioni l'esistenza di un preciso vincolo comunitario ad attuare un vasto processo di liberalizzazione del settore, armonizzando le procedure amministrative ed evitando ritardi nella realizzazione delle infrastrutture di comunicazione elettronica.
4.2.— Il Codice, che richiama le direttive in discorso nel quarto e nel quinto punto della sua “premessa”, si pone, per questa parte, in linea con i dettami comunitari, realizzando l'obiettivo della liberalizzazione e semplificazione delle procedure anche al fine di garantire l'attuazione delle regole della concorrenza.
In particolare, i principî di derivazione comunitaria sono stati espressamente recepiti dall'art. 4 del decreto impugnato, il quale prevede che la disciplina delle reti (e dei servizi) è volta a salvaguardare i diritti costituzionalmente garantiti di «libertà di comunicazione», nonché di «libertà di iniziativa economica e suo esercizio in regime di concorrenza, garantendo un accesso al mercato delle reti e servizi di comunicazione elettronica secondo criteri di obiettività, trasparenza, non discriminazione e proporzionalità» (comma 1). Il terzo comma dello stesso art. 4 dispone, inoltre, tra l'altro, che la suddetta disciplina è volta anche a «promuovere la semplificazione dei procedimenti amministrativi e la partecipazione ad essi dei soggetti interessati, attraverso l'adozione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti nei confronti delle imprese che forniscono reti e servizi di comunicazione elettronica», nonché a «promuovere lo sviluppo in regime di concorrenza delle reti e dei servizi di comunicazione elettronica, ivi compresi quelli a larga banda e la loro diffusione sul territorio nazionale, dando impulso alla coesione sociale ed economica anche a livello locale».
5.— Oggetto del presente giudizio di costituzionalità è il Capo V del Titolo II del Codice (artt. da 86 a 95) relativo alla rete delle infrastrutture di comunicazione elettronica.
Orbene, nella individuazione degli ambiti cui afferiscono le norme impugnate, occorre rilevare, in via preliminare, che le stesse attengono ad una pluralità di materie rispetto alle quali variamente si atteggia la competenza legislativa dello Stato e delle Regioni.
Tra i titoli di competenza esclusiva statale vengono in rilievo, per taluni profili, come si vedrà in prosieguo, le “materie” dell'“ordinamento civile”, del “coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale” e della “tutela della concorrenza”. Sotto quest'ultimo aspetto è, infatti, evidente l'incidenza che una efficiente rete di infrastrutture di comunicazione elettronica può avere sullo sviluppo economico del Paese e sulla concorrenzialità delle imprese. Ciò in un'ottica secondo la quale la “materia” della “tutela della concorrenza” deve essere intesa non «soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e di ripristino di un equilibrio perduto», ma anche in un'accezione dinamica «che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali» (sentenza n. 14 del 2004; v. anche sentenza n. 272 del 2004). Un ulteriore titolo legittimante l'intervento statale è costituito dalla “tutela dell'ambiente”: questa Corte ha, in proposito, in più di una occasione avuto modo di affermare che la “tutela dell'ambiente” non costituisce una “materia” in senso stretto, rappresentando, invece, un compito nell'esercizio del quale lo Stato conserva il potere di fissare standard di tutela uniformi sull'intero territorio nazionale. La peculiare natura della competenza in esame, che investe e interseca altri interessi e competenze, non esclude, però, affatto la possibilità che il legislatore regionale, nell'esercizio della propria potestà legislativa, possa assumere tra i propri scopi la cura «di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali» (sentenza n. 407 del 2002; nello stesso senso, tra le altre, v. sentenze n. 135 del 2005; n. 259 del 2004; n. 307 e n. 222 del 2003).
Nella specie i titoli di legittimazione regionale attengono tutti a materie di competenza ripartita, relative: alla “tutela della salute”, per i profili inerenti alla protezione dall'inquinamento elettromagnetico; all'“ordinamento della comunicazione”, per quanto riguarda «gli impianti di telecomunicazione o radiotelevisivi» (sentenza n. 307 del 2003); al “governo del territorio”, per «tutto ciò che attiene all'uso del territorio e alla localizzazione di impianti o attività» (sentenza n. 307 del 2003).
Deve, invece, escludersi che vengano in rilievo materie di competenza residuale delle Regioni, ex art. 117, quarto comma, della Costituzione, e segnatamente quelle relative all'industria ed al commercio, troppo labile apparendo il collegamento tra dette materie e le disposizioni censurate. Allo stesso modo inconferente è il richiamo contenuto nei ricorsi alle materie dell'“urbanistica” e dell'“edilizia”, qualificate come materie rientranti nell'ambito della potestà legislativa residuale delle Regioni: questa Corte ha, infatti, già chiarito che le stesse devono intendersi incluse nella più ampia materia del “governo del territorio” (sentenze n. 196 del 2004; n. 362 e n. 303 del 2003, punto 11.1 del Considerato in diritto).
Orbene, alla luce delle considerazioni innanzi svolte, la legittimazione dello Stato a dettare norme in detto settore deriva – oltre che dai richiamati titoli di competenza legislativa esclusiva – essenzialmente dalla potestà di fissare i principî fondamentali nelle materie ripartite, a norma dell'art. 117, terzo comma, ultima parte, della Costituzione.
6.— Ciò precisato in linea generale, si può passare all'esame delle censure di costituzionalità formulate dalle ricorrenti, iniziando da quelle che, per il loro carattere, coinvolgono l'intera disciplina contenuta nel Capo V del Titolo II del Codice.
Le Regioni, innanzitutto, deducono l'illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate, in quanto recherebbero «una disciplina dettagliata, autoapplicativa, non cedevole» e «direttamente operante nei confronti dei privati», tanto da non lasciare «alcuno spazio all'intervento legislativo regionale». In particolare, le ricorrenti ritengono che la disciplina di un procedimento unitario e dettagliato per l'autorizzazione all'installazione degli impianti, predeterminando anche i tempi di formazione degli atti e della volontà delle amministrazioni locali coinvolte, lederebbe la competenza legislativa delle Regioni.
6.1.— La questione non è fondata.
L'analisi della censura presuppone che si chiarisca, in via preliminare, che l'ampiezza e l'area di operatività dei principî fondamentali – non avendo gli stessi carattere «di rigidità e di universalità» (cfr., da ultimo, sentenza n. 50 del 2005) – non possono essere individuate in modo aprioristico e valido per ogni possibile tipologia di disciplina normativa.
Esse, infatti, devono necessariamente essere calate nelle specifiche realtà normative cui afferiscono e devono tenere conto, in modo particolare, degli aspetti peculiari con cui tali realtà si presentano. È, dunque, evidente che, nell'individuare i principî fondamentali relativi al settore delle infrastrutture di comunicazione elettronica, non si può prescindere dalla considerazione che ciascun impianto di telecomunicazione costituisce parte integrante di una complessa ed unitaria rete nazionale, sicché non è neanche immaginabile una parcellizzazione di interventi nella fase di realizzazione di una tale rete (cfr. sentenza n. 307 del 2003). Nella relazione illustrativa al Codice, si legge, inoltre, a tal proposito, che «la rete è unica a livello globale» e che la stessa «non ha senso se le singole frazioni non sono connesse tra di loro, quale che ne sia la proprietà e la disponibilità». Ciò comporta che i relativi procedimenti autorizzatori devono essere necessariamente disciplinati con carattere di unitarietà e uniformità per tutto il territorio nazionale, dovendosi evitare ogni frammentazione degli interventi. Ed è, dunque, alla luce di tali esigenze e finalità che devono essere valutate ampiezza ed operatività dei principî fondamentali riservati alla legislazione dello Stato.
Nella fase di attuazione del diritto comunitario la definizione del riparto interno di competenze tra Stato e Regioni in materie di legislazione concorrente e, dunque, la stessa individuazione dei principî fondamentali, non può prescindere dall'analisi dello specifico contenuto e delle stesse finalità ed esigenze perseguite a livello comunitario. In altri termini, gli obiettivi posti dalle direttive comunitarie, pur non incidendo sulle modalità di ripartizione delle competenze, possono di fatto richiedere una peculiare articolazione del rapporto norme di principio-norme di dettaglio. Nella specie, la puntuale attuazione delle prescrizioni comunitarie, secondo cui le procedure di rilascio del titolo abilitativo per la installazione degli impianti devono essere improntate al rispetto dei canoni della tempestività e della non discriminazione, richiede di regola un intervento del legislatore statale che garantisca l'esistenza di un unitario procedimento sull'intero territorio nazionale, caratterizzato, inoltre, da regole che ne consentano una conclusione in tempi brevi.
Alla luce delle considerazioni che precedono, la suindicata censura di ordine generale prospettata dalle ricorrenti non è fondata.
7.— Ancora su un piano generale, deve essere esaminata la ulteriore censura con la quale le ricorrenti lamentano che le disposizioni impugnate sarebbero costituzionalmente illegittime in quanto attribuirebbero direttamente l'esercizio di funzioni amministrative agli enti locali, disciplinando il relativo procedimento, laddove tali funzioni dovrebbero essere conferite con legge statale o regionale, sulla base delle rispettive competenze, secondo quanto prescritto dall'art. 118 della Costituzione. In particolare, si assume che in materia di competenza concorrente o residuale delle Regioni la disciplina legislativa delle funzioni amministrative dovrebbe spettare alle Regioni stesse.
7.1.— La questione non è fondata.
Le ricorrenti muovono da un erroneo presupposto interpretativo. Le norme impugnate, facendo generico riferimento agli «enti locali», non allocano direttamente funzioni amministrative ad un determinato livello di governo, bensì si limitano a formulare un principio fondamentale di disciplina in forza del quale tutti i procedimenti relativi alla installazione delle infrastrutture di comunicazione elettronica devono essere “gestiti” dai predetti enti.
In altri termini, lo Stato, sul presupposto della preesistenza delle funzioni degli enti locali in materia, in base a normative da lungo tempo vigenti, ha solo disciplinato, con norme costituenti espressione di principî fondamentali, lo svolgimento di tali funzioni. Rimane ferma, pertanto, la facoltà delle Regioni di allocare le funzioni in esame ad un determinato livello territoriale subregionale, nel rispetto degli artt. 117, secondo comma, lettera p), e 118 della Costituzione. Non solo. Le Regioni, nel quadro e nel rispetto dei principî fondamentali così fissati dalla legge statale, ben possono prescrivere, eventualmente, ulteriori modalità procedimentali rispetto a quelle previste dallo Stato, in vista di una più accentuata semplificazione delle stesse.
8.— Passando ora all'esame delle censure specificamente rivolte alle singole disposizioni impugnate, con la prima di esse le ricorrenti lamentano che l'art. 86, comma 3, del Codice illegittimamente prevede che le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, di cui agli artt. 87 e 88, siano assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria di cui all'art. 16, comma 7, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), pur restando di proprietà dei rispettivi operatori, e che ad esse si applichi la normativa vigente in materia.
Secondo le ricorrenti, la suddetta disposizione lederebbe la competenza regionale relativa al governo del territorio, in quanto, assimilando le infrastrutture di rete alle opere di urbanizzazione primaria, porrebbe norme di dettaglio senza lasciare alcuno spazio alla competenza concorrente regionale. In particolare, rileva la Regione Marche, la norma in esame introdurrebbe «una classificazione che incide in termini stringenti sulle possibilità delle Regioni di definire la disciplina di queste particolari infrastrutture».
8.1.— La questione non è fondata.
La scelta di inserire le infrastrutture di reti di comunicazione tra le opere di urbanizzazione primaria esprime un principio fondamentale della legislazione urbanistica, come tale di competenza dello Stato, al pari dell'analoga scelta legislativa di carattere generale che ha portato il citato art. 16, commi 7 e 7-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001, a classificare come opere di urbanizzazione primaria, tra le altre, le strade residenziali, gli spazi di sosta e di parcheggio, le fognature, nonché i cavedi multiservizi e i cavidotti per il passaggio di reti di telecomunicazione. Non si tratta, pertanto, di una norma di dettaglio, ma di una norma che fissa un principio basilare nella materia del governo del territorio, cui le Regioni, nel legiferare, dovranno attenersi a norma dell'art. 117, terzo comma, ultima parte, della Costituzione.
9.— La Regione Marche formula specifiche censure anche nei confronti dell'art. 86, comma 7, dello stesso Codice, il quale impone alle Regioni di uniformarsi ai limiti di esposizione, ai valori di attenzione ed agli obiettivi di qualità stabiliti dall'art. 4, comma 2, lettera a), della legge 22 febbraio 2001, n. 36 (Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici).
Si lamenta, in particolare, che il Codice, vincolandole anche al rispetto degli obiettivi di qualità, impedirebbe alle Regioni di esercitare una competenza che è stata riconosciuta loro dalla giurisprudenza costituzionale con la sentenza n. 307 del 2003, e successivamente con la sentenza n. 324 del 2003, e cioè la competenza relativa alla indicazione degli obiettivi di qualità.
9.1.— La questione non è fondata.
Questa Corte nella sentenza n. 307 del 2003 ha affermato che compete allo Stato, nel complessivo sistema di definizione degli standard di protezione dall'inquinamento elettromagnetico di cui alla legge n. 36 del 2001, la fissazione delle soglie di esposizione e, dunque, nel lessico legislativo, la determinazione dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità, limitatamente per quest'ultimi alla definizione dei valori di campo «ai fini della progressiva minimizzazione dell'esposizione» (art. 3, comma 1, lettera d, numero 2). La Corte ha, però, riconosciuto, in linea con quanto prescritto dalla menzionata legge quadro, che spetta alla competenza delle Regioni la disciplina dell'uso del territorio in funzione della localizzazione degli impianti e quindi la indicazione degli obiettivi di qualità, consistenti in criteri localizzativi degli impianti di comunicazione (art. 3, comma 1, lettera d, numero 1).
Orbene, la norma ora impugnata, contrariamente a quanto sostenuto dalle ricorrenti, rispetta l'indicato riparto di competenze.
Essa, infatti, stabilisce che per gli obiettivi di qualità «si applicano le disposizioni di attuazione di cui all'articolo 4, comma 2, lettera a), della legge n. 36 del 2001», che opera, però, un rinvio al comma 1, lettera a), del medesimo art. 4. Quest'ultimo, come si è innanzi precisato, riserva allo Stato le funzioni relative alla determinazione dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e anche degli obiettivi di qualità, solo «in quanto valori di campo come definiti dall'articolo 3, comma 1, lettera d), numero 2». Deve, dunque, ritenersi che rimanga ferma la competenza delle Regioni nella determinazione dei diversi “obiettivi di qualità” cui fa riferimento il numero 1 della stessa lettera d) dell'art. 3, consistenti, appunto, come si è precisato, negli indicati criteri localizzativi, standard urbanistici, prescrizioni e incentivazioni per l'utilizzo delle migliori tecnologie disponibili. La lettura combinata delle predette norme consente, pertanto, di escludere la sussistenza della denunciata violazione delle attribuzioni spettanti alle Regioni sia per quanto concerne la materia del “governo del territorio”, sia per quanto attiene a quella della “tutela della salute”.
10.— Viene, inoltre, censurato dalle ricorrenti il primo comma dell'art. 87 del Codice, il quale prevede che l'installazione di infrastrutture per impianti radioelettrici, la modifica delle caratteristiche di emissione di questi ultimi e, in specie, l'installazione di torri, di tralicci, di impianti radio-trasmittenti, di ripetitori di servizi di comunicazione elettronica, di stazioni radio base per reti di comunicazioni elettroniche mobili GSM/UMTS, per reti di diffusione, distribuzione e contribuzione dedicate alla televisione digitale terrestre, per reti a radiofrequenza dedicate alle emergenze sanitarie ed alla protezione civile, nonché per reti radio a larga banda punto-multipunto nelle bande di frequenza all'uopo assegnate, sono autorizzate dagli enti locali, previo accertamento, da parte dell'organismo competente ad effettuare i controlli, ossia l'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente (ARPA), della compatibilità del progetto con i limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità.
Le ricorrenti lamentano che il vincolo degli obiettivi di qualità ponga una limitazione costituzionalmente illegittima alle competenze regionali in ordine alla localizzazione dei siti, secondo quanto già affermato da questa Corte con le sentenze n. 324 e n. 307 del 2003.
10.1.— La questione non è fondata per ragioni analoghe a quelle poc'anzi indicate.
Deve, al riguardo, ribadirsi che l'art. 87 vincola le Regioni al rispetto degli obiettivi di qualità, stabiliti uniformemente a livello nazionale in relazione al disposto della legge n. 36 del 2001 e dei relativi provvedimenti di attuazione. Attraverso il rinvio alla citata legge (art. 3, comma 1, lettera d, numero 2), tale vincolo agisce limitatamente ai «valori di campo elettrico, magnetico ed elettromagnetico (…) ai fini della progressiva minimizzazione dell'esposizione ai campi medesimi». In sostanza, come si è prima precisato, la norma impugnata fa salvi, attribuendoli alla Regione, «i criteri localizzativi, gli standard urbanistici, le prescrizioni e le incentivazioni per l'utilizzo delle migliori tecnologie disponibili» (art. 3, comma 1, lettera d, numero 1). A ciò si aggiunga che, nel caso in esame, il mancato riferimento a questa seconda tipologia di obiettivi di qualità si giustifica anche in quanto la disposizione censurata richiama gli accertamenti svolti dall'organismo competente ad effettuare i controlli (ARPA) di cui all'art. 14 della legge n. 36 del 2001, che attengono esclusivamente alla tutela sanitaria e ambientale.
11.— L'art. 87 del Codice è, altresì, impugnato per quanto specificatamente dispone nei commi 6, 7 e 8.
In base al comma 6, in sede di esame delle istanze dirette all'adozione del provvedimento di autorizzazione all'installazione di un impianto di comunicazione elettronica, quando una amministrazione interessata abbia espresso motivato dissenso, il responsabile del procedimento deve convocare, entro trenta giorni dalla data di ricezione della domanda, una conferenza di servizi, alla quale prendono parte i rappresentanti degli enti locali interessati, nonché dei soggetti preposti ai controlli di cui all'art. 14 della legge n. 36 del 2001 ed un rappresentante dell'amministrazione dissenziente. Il comma 7 prosegue disponendo che la conferenza di servizi deve pronunciarsi entro trenta giorni dalla prima convocazione e che l'approvazione, adottata a maggioranza dei presenti, «sostituisce ad ogni effetto gli atti di competenza delle singole amministrazioni e vale altresì come dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dei lavori». Qualora poi il motivato dissenso, a fronte di una decisione positiva assunta dalla conferenza di servizi, sia espresso da un'amministrazione preposta alla tutela ambientale, alla tutela della salute o alla tutela del patrimonio storico-artistico, il comma 8 stabilisce che la decisione sia rimessa al Consiglio dei ministri e che trovino applicazione, in quanto compatibili con il Codice, le disposizioni di cui agli artt. 14 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), che disciplinano, appunto, l'istituto della conferenza di servizi.
Secondo le ricorrenti, la disciplina posta dai citati commi dell'art. 87 sarebbe illegittima nella parte in cui estende la regola della maggioranza all'adozione dell'atto finale, prevede una sola ipotesi di dissenso qualificato ed affida al Consiglio dei ministri la relativa decisione.
11.1.— La questione non è fondata.
L'istituto della conferenza di servizi costituisce, in generale, uno strumento di semplificazione procedimentale e di snellimento dell'azione amministrativa (sentenze n. 348 e n. 62 del 1993; n. 37 del 1991; cfr. anche sentenza n. 79 del 1996). Tale funzione, nel contesto dello specifico procedimento in esame e degli interessi allo stesso sottesi, consente di ritenere che la previsione contenuta nella disposizione censurata sia espressione di un principio fondamentale della legislazione.
A ciò si aggiunga che il comma 8 della disposizione impugnata prevede un meccanismo di operatività della conferenza nel caso in cui il dissenso sia espresso da un'amministrazione preposta alla tutela ambientale, alla tutela della salute o alla tutela del patrimonio storico-artistico, che assicura comunque un adeguato coinvolgimento delle Regioni. Tale disposizione, infatti, pur prevedendo che quando la volontà contraria venga manifestata da una delle suddette amministrazioni la decisione sia rimessa al Consiglio dei ministri, specifica che trovano comunque applicazione, «in quanto compatibili con il Codice», le disposizioni di cui agli artt. 14 e seguenti della legge n. 241 del 1990. Orbene, il terzo comma dell'art. 14-quater della predetta legge, nel testo in vigore al momento dell'emanazione del decreto impugnato, stabiliva che nella ipotesi di amministrazione dissenziente diversa da quella statale e sempre che quest'ultima non fosse l'amministrazione procedente, la determinazione finale dovesse essere attribuita «ai competenti organi collegiali esecutivi degli enti territoriali». Considerato che, nell'ipotesi prevista dal Codice, l'amministrazione procedente è un ente locale, l'eventuale dissenso espresso da organi regionali, nel regime normativo all'epoca vigente, faceva scattare il meccanismo garantista della decisione demandata all'organo collegiale di governo della Regione, vale a dire alla Giunta, sicché non possono essere ravvisati profili di violazione delle attribuzioni regionali. È bene precisare che la salvaguardia di tali attribuzioni, dopo le modifiche apportate all'art. 14-quater della legge n. 241 del 1990 dall'art. 11 della legge 11 febbraio 2005, n. 15 (Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull'azione amministrativa), passa – nel caso in cui il dissenso verta tra una amministrazione statale ed una amministrazione regionale – attraverso il coinvolgimento diretto della Conferenza Stato-Regioni.
12.— Ancora in ordine all'art. 87 del Codice, viene censurata la disposizione del comma 9, che disciplina una ipotesi di silenzio-assenso, prevedendosi che «le istanze di autorizzazione e le denunce di attività» cui fa riferimento lo stesso articolo, «nonché quelle relative alla modifica delle caratteristiche di emissione degli impianti già esistenti, si intendono accolte qualora, entro novanta giorni dalla presentazione del progetto e della relativa domanda, fatta eccezione per il dissenso di cui al comma 8, non sia stato comunicato un provvedimento di diniego». Il medesimo comma precisa che gli enti locali possono prevedere termini più brevi per la conclusione dei relativi procedimenti ovvero ulteriori forme di semplificazione amministrativa, nel rispetto delle disposizioni stabilite dallo stesso comma.
Le ricorrenti deducono che la disciplina impugnata sarebbe di dettaglio e dunque costituzionalmente illegittima. In particolare, le ricorrenti osservano che tale normativa – non lasciando alcuno spazio alle Regioni per stabilire forme diverse di semplificazione amministrativa – impedirebbe al legislatore regionale di prevedere modalità di contemperamento delle esigenze di celerità del procedimento autorizzatorio con le imprescindibili garanzie di tutela dell'ambiente, della salute e di governo del territorio.
12.1.— Anche tale questione non è fondata.
La disposizione in esame prevede moduli di definizione del procedimento, informati alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità, espressivi in quanto tali di un principio fondamentale di diretta derivazione comunitaria. Del resto, l'evoluzione attuale dell'intero sistema amministrativo si caratterizza per una sempre più accentuata valenza dei “principî di semplificazione” nella regolamentazione di talune tipologie procedimentali ed in relazione a determinati interessi che vengono in rilievo (cfr. artt. 19 e 20 della legge n. 241 del 1990, come modificati dall'art. 3 del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante «Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale», convertito, con modificazioni, nella legge 14 maggio 2005, n. 80). Nel caso di specie, la pluralità delle esigenze e dei valori di rilevanza costituzionale sottesi alle “materie” nel cui ambito rientrano le disposizioni censurate, in una con la finalità complessiva di garantire un rapido sviluppo dell'intero sistema delle comunicazioni elettroniche (cfr. sentenza n. 307 del 2003) secondo i dettami sanciti a livello comunitario, induce a ritenere che le norme in esame siano espressione di principî fondamentali. Questa Corte ha, inoltre, già avuto modo di precisare – sia pure con riferimento a procedimenti aventi una esclusiva valenza urbanistica – in relazione alla denuncia di inizio attività di cui all'art. 2, comma 60, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), ora confluito nell'art. 22 del d.P.R. n. 380 del 2001, che «le fattispecie nelle quali, in alternativa alle concessioni o autorizzazioni edilizie, si può procedere alla realizzazione delle opere con denuncia di inizio attività a scelta dell'interessato integrano il proprium del nuovo principio dell'urbanistica (…). In definitiva, le norme impugnate perseguono il fine, che costituisce un principio dell'urbanistica, che la legislazione regionale e le funzioni amministrative in materia non risultino inutilmente gravose per gli amministrati e siano dirette a semplificare le procedure» (sentenza n. 303 del 2003, punto 11.2. del Considerato in diritto).
13.— Oggetto di censura è anche quanto stabilito dall'art. 88 del Codice, il quale per l'ipotesi in cui l'installazione di infrastrutture di comunicazione elettronica presupponga la realizzazione di opere civili o, comunque, l'effettuazione di scavi e l'occupazione di suolo pubblico, definisce un procedimento analogo a quello descritto nell'art. 87, con la previsione della conferenza di servizi e del silenzio-assenso e fissa regole affinché gli enti pubblici definiscano i programmi di manutenzione ordinaria e straordinaria delle rispettive opere.
Le censure proposte sono analoghe a quelle sollevate avverso l'art. 87.
Esse si indirizzano in particolare alle disposizioni che disciplinano la conferenza di servizi, nonché la conclusione del procedimento amministrativo mediante silenzio-assenso.
13.1.— Al riguardo, è da osservare che la norma impugnata non determina alcun vulnus alle competenze regionali per le medesime ragioni sopra esposte in relazione alle censure rivolte nei confronti dell'art. 87, di talché la questione avente ad oggetto il predetto art. 88 del d.lgs. n. 259 del 2003 deve ritenersi non fondata.
14.— Entrambe le ricorrenti impugnano l'art. 89, nella parte in cui definisce le regole di condivisione e coubicazione di infrastrutture. Si tratta, in particolare, di regole concernenti la «condivisione dello scavo» e la «coubicazione dei cavi di comunicazione elettronica».
Le ricorrenti assumono che le prescrizioni contenute in detto articolo violerebbero l'art. 117, terzo comma, della Costituzione, perché detterebbero una disciplina dettagliata nelle materie del “governo del territorio”, dell'“ordinamento della comunicazione” e della “tutela della salute”, attribuite alla competenza concorrente.
14.1.— La censura è inammissibile per genericità.
A prescindere dalla possibile riconducibilità di alcune previsioni contenute nella disposizione impugnata alla materia dell'“ordinamento civile”, di competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lettera l, Cost.), la ricorrente non svolge alcuna argomentazione a sostegno della illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate, non specificando neppure le parti dell'articolo impugnato che eccederebbero dalla formulazione di un principio fondamentale.
15.— Le Regioni ricorrenti censurano, altresì, sotto due diversi profili, l'art. 93.
Esso, dopo aver previsto, al comma 1, che le pubbliche Amministrazioni, le Regioni, le Province ed i Comuni non possono imporre, per l'impianto di reti o per l'esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri o canoni che non siano fissati per legge, stabilisce, al comma 2, che gli operatori che forniscono reti di comunicazione elettronica hanno l'obbligo – fatta eccezione per tasse, canoni e contributi specificamente indicati dalla stessa norma in esame – di tenere indenne l'ente locale, ovvero l'ente proprietario, dalle spese necessarie per le opere di sistemazione delle aree pubbliche coinvolte dagli interventi di installazione e manutenzione, nonché l'obbligo di ripristinare a regola d'arte le aree medesime nei tempi stabiliti dall'ente locale.
Sotto un primo aspetto entrambe le ricorrenti deducono la violazione dell'art. 117 della Costituzione perché l'articolo de quo detterebbe, in ambiti materiali attribuiti alla competenza regionale, una disciplina “uniforme” delle infrastrutture per le quali, invece, si dovrebbe tener conto dello specifico contesto territoriale e normativo di ciascuna Regione.
Sotto un diverso profilo la sola Regione Marche deduce la illegittimità delle norme nelle parti in cui fissano in modo puntuale – per gli operatori – gli oneri connessi alle attività di installazione, scavo ed occupazione di suolo pubblico, ritenendo che le stesse sarebbero costituzionalmente illegittime per contrasto con l'art. 119 Cost.
In particolare, si sostiene che il principio dell'autonomia finanziaria, sotto il profilo dell'autonomia di spesa, unitamente «alla norma secondo cui per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni», implicherebbe che tutte le funzioni amministrative spettanti alle Regioni, diverse da quelle “ordinarie”, risultino finanziate attraverso l'attribuzione diretta ai loro bilanci di risorse adeguate, senza vincoli sulle modalità di spesa.
La Regione Marche aggiunge che sussisterebbe, inoltre, la violazione dell'art. 119 Cost. anche perché si imporrebbero «oneri finanziari a carico – sia pure indirettamente – delle Regioni».
15.1.— Sotto entrambi i profili la censura non è fondata.
Sotto il primo profilo, la disposizione in esame deve ritenersi espressione di un principio fondamentale, in quanto persegue la finalità di garantire a tutti gli operatori un trattamento uniforme e non discriminatorio, attraverso la previsione del divieto di porre a carico degli stessi oneri o canoni. In mancanza di un tale principio, infatti, ciascuna Regione potrebbe liberamente prevedere obblighi “pecuniari” a carico dei soggetti operanti sul proprio territorio, con il rischio, appunto, di una ingiustificata discriminazione rispetto ad operatori di altre Regioni, per i quali, in ipotesi, tali obblighi potrebbero non essere imposti. È evidente che la finalità della norma è anche quella di “tutela della concorrenza”, sub specie di garanzia di parità di trattamento e di misure volte a non ostacolare l'ingresso di nuovi soggetti nel settore. Ad analogo criterio si ispira la disposizione che sancisce, in capo agli operatori, l'obbligo di tenere indenni gli enti locali o gli enti proprietari delle spese necessarie per le opere di sistemazione delle aree pubbliche.
Anche sotto il secondo profilo la censura non è fondata.
La ricorrente muove da un erroneo presupposto interpretativo, in quanto la norma statale non attribuisce né tantomeno disciplina, per gli scopi indicati dal quarto comma dell'art. 119 della Costituzione, funzioni di “determinate” Regioni, con conseguente necessità di “destinazione di risorse”: il legislatore statale si è, infatti, limitato a porre a carico degli operatori di settore oneri che non gravano sui bilanci regionali. Tali oneri sono strettamente funzionali alla copertura di costi, specificamente indicati dal secondo comma dell'art. 93, sostenuti per l'esercizio di un'attività non riconducibile a “funzioni regionali” diverse da quelle “ordinarie”, bensì all'operato di soggetti privati che svolgono attività di impresa, ancorché connessa all'erogazione del “servizio pubblico” di comunicazione elettronica.
16.— Passando all'esame dell'art. 95, va osservato che tale articolo, nel disciplinare gli impianti e le condutture di energia elettrica o tubazioni, prescrive, al comma 1, che nessuna conduttura di energia elettrica, anche se subacquea, a qualunque uso destinata, può essere costruita, modificata o spostata senza che sul relativo progetto sia stato preventivamente ottenuto il nulla osta del Ministero delle comunicazioni, ed inoltre subordina al preventivo consenso del Ministero stesso l'esecuzione di qualsiasi lavoro sulle condutture subacquee di energia elettrica, e sui relativi atterraggi, riconoscendo a tale organismo il potere di esercitare la vigilanza e il controllo sulla esecuzione dei lavori. Nel caso in cui si realizzino interferenze tra cavi di comunicazione elettronica e cavi di energia elettrica sotterrati devono essere osservate le norme generali per gli impianti elettrici stabilite dal comitato elettrotecnico italiano (CEI) del Consiglio nazionale delle ricerche. Qualora, poi, a causa di impianti di energia elettrica si abbia un mutamento del servizio di comunicazione elettronica, il Ministero promuove lo spostamento degli impianti o adotta altri provvedimenti idonei ad eliminare i disturbi, con spese a carico di chi li rende necessari.
Secondo la Regione Marche la norma in esame sarebbe costituzionalmente illegittima, in quanto conterrebbe una disciplina di dettaglio in materie di competenza concorrente (“ordinamento della comunicazione” e “governo del territorio”).
Ad avviso della Regione Toscana l'art. 95 si porrebbe in contrasto con gli artt. 117 e 118 della Costituzione, perché lo Stato, in materia di competenza concorrente, attribuirebbe ad un organo statale (l'ispettorato del Ministero delle comunicazioni) i compiti di cui innanzi senza rispettare i criteri sanciti dalla giurisprudenza di questa Corte ai fini della avocazione, a livello centrale, di funzioni amministrative: l'assunzione di funzioni, secondo la ricorrente, non sarebbe, infatti, proporzionata, né ragionevole e soprattutto non sarebbe accompagnata dalla previsione dell'intesa con la Regione.
16.1.— La questione non è fondata.
Questa Corte con la sentenza n. 7 del 2004, pur riconoscendo alle Regioni la competenza a dettare disposizioni sulla progettazione tecnica degli impianti di produzione, distribuzione e utilizzo dell'energia, ha affermato che alla rete regionale si devono comunque applicare le “regole tecniche” adottate dal gestore nazionale. Nel caso in esame, il nulla osta ministeriale è diretto proprio a garantire il rispetto di quelle regole tecniche senza le quali l'esercizio della potestà legislativa regionale potrebbe produrre una elevata diversificazione della rete di distribuzione della energia elettrica, con notevoli inconvenienti sul piano tecnico ed economico.
La norma impugnata, pertanto, costituendo una esplicitazione a livello tecnico dell'esigenza di assicurare uniformità e continuità alla rete delle infrastrutture di comunicazione elettronica, si sottrae alle proposte censure di illegittimità costituzionale.
17.— Entrambe le Regioni censurano l'allegato n. 13 al decreto legislativo impugnato, il quale determina il contenuto dei modelli da usare nella presentazione dell'istanza di autorizzazione e della denuncia di inizio attività.
Secondo la prospettazione dei ricorsi, la norma in esame integra l'esercizio di una vera e propria potestà regolamentare, che lo Stato non può legittimamente esercitare in materie diverse da quelle riservate alla sua competenza esclusiva, neppure ove si voglia riconoscere ai regolamenti emanati nelle materie di competenza regionale il carattere della cedevolezza.
La suddetta questione deve essere esaminata, per connessione, congiuntamente a quella proposta dalla sola Regione Marche in ordine agli artt. 86, comma 8, 87, comma 3, 88, comma 1, 89, comma 5, 92, 93, 94 e 95, nella parte in cui disciplinano il contenuto dei modelli da presentare per la domanda di autorizzazione e per gli altri adempimenti amministrativi connessi con l'installazione e l'esercizio degli impianti.
Secondo la ricorrente, tali norme sarebbero espressione di una potestà regolamentare, che lo Stato non potrebbe esercitare in materie, come quelle disciplinate, che non ricadono nella propria sfera di legislazione esclusiva.
17.1.— Le questioni non sono fondate.
Innanzitutto, si deve premettere che l'allegato n. 13, malgrado il fatto che il Codice ne preveda la modificabilità con atti regolamentari e amministrativi, deve considerarsi pur sempre atto di natura legislativa, sicché esso conserva il regime giuridico della fonte in cui è inserito.
Passando al merito della questione, deve osservarsi che la disciplina impugnata è riconducibile alla competenza esclusiva dello Stato in tema di “coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale” (art. 117, secondo comma, lettera r, Cost.; cfr. sentenze n. 31 del 2005 e n. 17 del 2004). L'art. 87, comma 3, del Codice, infatti, rispetto al modello A dell'allegato n. 13, dispone che esso sia «realizzato al fine della sua acquisizione su supporti informatici e destinato alla formazione del catasto nazionale delle sorgenti elettromagnetiche di origine industriale». Gli elementi, puntualmente indicati dalla norma in esame, hanno, infatti, natura prevalentemente tecnica e sono destinati a confluire in una banca dati centralizzata per la costituzione di un catasto nazionale di raccolta dei dati stessi. È evidente, pertanto, che le norme puntuali previste dal suddetto modello sono configurabili come la necessaria esplicitazione dei principî fondamentali contenuti nelle disposizioni che richiamano il modello stesso. Al modello D può estendersi la stessa argomentazione, trattandosi di una istanza di autorizzazione relativa ad aree di più enti, pubblici o privati. Quanto invece ai modelli B e C dell'allegato n. 13 – concernenti, rispettivamente, la denuncia di inizio attività e la istanza di autorizzazione per opere civili, scavi e occupazione di suolo pubblico in aree urbane – l'art. 87, comma 3, e l'art. 88, comma 1 – con norma espressione del principio fondamentale volto a garantire la celere conclusione dei procedimenti – ne prevedono espressamente l'applicabilità in via suppletiva, solo nel caso in cui gli enti locali non abbiano predisposto i modelli equivalenti.
18.— Infine, la sola Regione Marche ha impugnato “cumulativamente” gli artt. 90, 91, 92 e 94 del Codice, che disciplinano l'acquisizione dei beni immobili necessari alla realizzazione degli impianti (art. 90), la limitazione legale della proprietà (art. 91) e l'imposizione di servitù (artt. 92 e 94).
Secondo la ricorrente, tali disposizioni porrebbero una disciplina di dettaglio in materie riservate alla competenza concorrente (“ordinamento della comunicazione”, “governo del territorio”, “tutela della salute”) e, comunque, inciderebbero anche su (presunte) materie di competenza residuale regionale (edilizia e urbanistica).
18.1.— Le questioni indicate sono inammissibili per mancanza di argomenti minimi idonei ad individuare le motivazioni dell'asserita incostituzionalità. E ciò a prescindere dalla possibile riconducibilità del contenuto principale delle disposizioni impugnate alla materia dell'“ordinamento civile”, di competenza esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.), atteso che l'art. 91 disciplina le «limitazioni legali della proprietà», l'art. 92 le «servitù» prediali e l'art. 94 la materia della «occupazione di sedi autostradali da gestire in concessione e di proprietà dei concessionari».
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 89 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche) sollevate, in riferimento all'art. 117 della Costituzione, dalle Regioni Toscana e Marche, con i ricorsi indicati in epigrafe;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 90, 91, 92 e 94 del decreto legislativo n. 259 del 2003 sollevate, in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione, dalla Regione Marche, con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative all'intero Capo V del Titolo II (artt. 86-95) del decreto legislativo n. 259 del 2003 sollevate, in riferimento agli art. 117 e 118 della Costituzione, dalle Regioni Toscana e Marche, con i ricorsi indicati in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 86, commi 3 e 7, 87, commi 1, 6, 7, 8 e 9, 88, 93 e 95, nonché dell'allegato n. 13 del decreto legislativo n. 259 del 2003 sollevate, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, dalle Regioni Toscana e Marche, con i ricorsi indicati in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 86, comma 8, 87, comma 3, 88, comma 1, 89, comma 5, 92, 93, 94 e 95 in connessione con l'allegato n. 13 del decreto legislativo n. 259 del 2003, sollevate, in riferimento all'art. 117 della Costituzione, dalla Regione Marche con il ricorso indicato in epigrafe;
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 luglio 2005.

Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente
Alfonso QUARANTA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 27 luglio 2005.