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T.A.R. Lecce 1041/2002

                                                                           

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sez. I^ di Lecce

composto dai signori magistrati:

Aldo Ravalli                                                              Presidente

Paolo Severini                                                         Componente

Maria Ada Russo                                                     Componente relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

 

Sui  ricorsi riuniti  nn. 304/01 e 1295/01  proposti  da Nigro Angelo,

rappresentato e difeso dagli Avv.ti  G.Pellegrino e A. Salvi, ed elettivamente domiciliato in Lecce presso lo studio Pellegrino, in via Augusto Imperatore n.16;

CONTRO

Comune di Ceglie Messapica,

rappresentato e difeso dall’Avv. F. Larocca ed elettivamente domiciliato in Lecce presso lo studio Martucci, Via Matteo da Lecce;

il primo ricorso

- per l’accertamento della sussumibilità del mutamento di destinazione d’uso  nelle ipotesi  nelle quali è sufficiente la comunicazione di inizio attività;

- per l’annullamento della nota dirigenziale n. 1630 del 10.2.2000;

- per l’annullamento del silenzio rifiuto sulla istanza di concessione edilizia presentata dal ricorrente in data 24.2.2000;

-per il risarcimento del danno;

il secondo ricorso

 -per l’annullamento, previa sospensiva, della nota del Dirigente U.T. del Comune di Ceglie Messapica in data 24.1.2001;

Visti i ricorsi con i relativi allegati;

Visti gli atti tutti di causa;

Data per letta, alla pubblica udienza del 21 novembre 2001, la relazione del Referendario, dott.ssa Maria Ada Russo, e uditi, altresì, gli Avv. ti Gianluigi Pellegrino e Larocca Francesco;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

 

Ritenuto in fatto

 

Il ricorrente è proprietario di un fabbricato a piano terra, sito in Ceglie Messapica, ed è titolare di concessione edilizia n. 5281 del 1997. A seguito di successive varianti, nel 1999 gli è stato rilasciato un certificato di agibilità con destinazione laboratorio artigianale.

In data 21.1.2000, il medesimo ricorrente ha presentato al comune una comunicazione di variazione di destinazione d’uso  (DIA), senza opere, per mutamento d’uso da laboratorio artigianale a locale commerciale; tuttavia, in data 10.2.2000, con il provvedimento impugnato, gli è stato comunicato che “non è consentita la variazione di destinazione d’uso mediante denunzia di inizio attività ai sensi dell'art. 2, comma 60, della legge 662 del 1996”.

Pertanto, in data 23.2.2000 il ricorrente ha provveduto a chiedere il rilascio di concessione edilizia per cambio di destinazione d’uso.

Con il primo ricorso (ric. 304/2001), l’interessato ha chiesto sia l’accertamento della sussumibilità del mutamento di destinazione d’uso  nelle ipotesi nelle quali è sufficiente la comunicazione di inizio attività; e sia l’annullamento della nota dirigenziale n. 1630 del 10.2.2000 e del silenzio rifiuto sulla istanza di concessione edilizia presentata dal ricorrente in data 24.2.2000; infine ha formulato una richiesta di risarcimento del danno.

In data 24.1.2001 il  Comune di Ceglie Messapica gli ha comunicato che “la CEC, nella seduta del 12.12.2000, ha espresso parere contrario sull’istanza per cambio di destinazione d’uso (da laboratorio artigianale e locale commerciale) in quanto il cambio di destinazione d’uso richiesto comporta variazione di standard urbanistici… non trattandosi di zona mista produttiva per cui l’art. 5 del D.I. 2.4.1968 disciplina e differenzia al comma 1° gli standard per gli insediamenti a carattere industriale o artigianale e al comma 2° gli standard per gli insediamenti a carattere artigianale”.

Quest’ultimo atto è stato impugnato con il secondo ricorso (ric. 1295/2001).

Tanto premesso, con la prima impugnativa (ric. 304/01) l’interessato eccepisce i seguenti motivi:

1)in via principale violazione art. 4 comma 7 legge 398 del 1993; violazione e falsa applicazione art. 2, legge 662 del 1996 e art. 25 legge 47 del 1985; violazione di principi consolidati in tema  di mutamenti di destinazione d’uso; disparità di trattamento;

2) in via subordinata, eccesso di potere, violazione art. 4 DL 398 del 1993, violazione legge 241 del 1990. (In particolare, il ricorrente –(oltre a sostenere la tempestività del ricorso in relazione alla nota in data 10.2.2000  (che non avrebbe natura provvedimentale e comunque non conterrebbe l’indicazione circa i termini per impugnare)) – specifica che, a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale n. 73/91, devono distinguersi l’ipotesi del mutamento di destinazione d’uso senza opere edilizie (sottoposto a mera autorizzazione in presenza di norma regionale di riferimento) e quello con opere (che invece necessita di concessione edilizia). Nel caso di specie, trattasi di mutamento di destinazione da laboratorio artigianale a locale commerciale senza esecuzione di opere e, pertanto, il dirigente “doveva prendere atto della avvenuta DIA”. In via subordinata, è stato eccepito che sarebbe stata violata anche la norma di cui all’art. 4 del DL 398 del 1993 “atteso che, decorsi 10 mesi dalla presentazione dell’istanza, nessun provvedimento è stato formalizzato dalla PA”.)

Con memoria depositata il 7 febbraio  2001 si è costituito il Comune di Ceglie Messapica.

Nella stessa è stato rilevato, oltre alla tardività, che con nota del 24.1.2001 l’ufficio comunale provvedeva a comunicare la decisione negativa sull’istanza del ricorrente, a seguito di parere contrario espresso nella seduta del 12.12.2000 dalla CEC, in quanto il cambio di destinazione d’uso richiesto comporta variazione di standards urbanistici.

Infine,  il Comune ha specificato che “trattasi di destinazione di zona esclusivamente industriale artigianale e non mista commerciale-artigianale …pertanto, nel caso di specie, si avrebbe una variazione di standards con modifiche del carico urbanistico”.

Con la seconda impugnativa (ric. 1295/01), con la quale è stata impugnata la nota del Dirigente U.T. del Comune di Ceglie Messapica in data 24.1.2001 il sig. Nigro ha eccepito:

1)  violazione e falsa applicazione artt. 8 e 25, comma 4, della legge 47/85, artt. 2 e segg. DM 1444/68; violazione di consolidati principi in tema di mutamento d’uso (si contesta in particolare che la previsione di situare in una apposita zona gli insediamenti relativi alle attività secondarie, per evitare che gli stessi si situino in zona residenziale, “non significa affatto che dalla zona stessa debbano rimanere esclusi gli insediamenti commerciali (e ciò è tanto vero che non esiste un espresso divieto in tal senso, né è prevista una apposita zona per gli insediamenti commerciali)”. Inoltre, l’art. 5, n. 2, del Dm 1444/68 disciplina le differenze di standard tra i nuovi insediamenti a carattere industriale e quelli a carattere commerciale e direzionale, quando invece l’immobile del ricorrente è inserito in un contesto urbanistico i cui standard sono regolati nel Pdf);

2)  disparità di trattamento; eccesso di potere; (ad avviso del ricorrente in casi analoghi l’A.C. si sarebbe comportata diversamente rilasciando l’agibilità per uso capannone artigiano-industriale valida altresì per uso di negozio e deposito all’ingrosso);

3)  violazione artt. 23 e segg. Del D. lgs.vo 112/98 e 5 DPR 447/98; eccesso di potere per sviamento e carenza istruttoria e di motivazione (si contesta che l’A.C. doveva, se riteneva l’istanza del ricorrente in contrasto con gli strumenti urbanistici, attivare la procedura prevista dalla normativa richiamata relativa alla convocazione di una conferenza di servizi).

Con memoria depositata il 7 maggio 2001 si è costituito il Comune di Ceglie Messapica che resiste e ribadisce l’infondatezza dell’impugnativa alla luce di una serie di considerazioni:

a)  la “destinazione di zona esclusivamente industriale –artigianale e non (come il ricorrente afferma) mista commerciale-artigianale”;

b)  il fatto che nessuna attività commerciale è stata autorizzata o viene svolta all’interno della predetta zona industriale-artigianale;

c)  il richiamo alle NTA del Piano Quadro che non prevede appunto alcuna forma di attività commerciale all’interno della zona;

d)  la circostanza che il richiesto mutamento d’uso comporterebbe variazioni di standards con modifiche al carico urbanistico e nella categoria di cui al citato DM del 1968 (si puntualizza che una attività commerciale abbisogna di un’area di parcheggio più ampia rispetto a quella di un edificio ad uso abitativo);

e)  la non applicabilità al caso di specie dell’art. 4, comma 7°, del DL 398/93 atteso che la lettera

g) impone che le varianti a concessioni già rilasciate non incidano sui parametri urbanistici e sulle volumetrie.

Con ordinanza n. 915 del 7.6.2001 la Sezione ha respinto la domanda di sospensione dei provvedimenti impugnati con il ricorso 1295/01.

Con memoria depositata in data 10 novembre 2001 il  ricorrente ha riassunto le sue conclusioni chiarendo  che:

a)                               le zone commerciali sono incluse dal DM n. 1444/68 in una  categoria omogenea alle zone industriali e artigianali (D) e pertanto sono compatibili con le stesse;

b)                               nel Pdf di Ceglie non esiste una distinzione all’interno della zona D prevedendosi nel piano una zona residenziale (nella quale non possono insediarsi attività secondarie) e una zona destinata ad attività in senso lato produttive;

c)                               se l’esemplificazione contenuta nell’art. 4 titolo IV del Pdf dovesse considerarsi tassativa sarebbe impedito il diritto di svolgere nuove attività commerciali, non potendo le stesse inserirsi in nessuna delle due zone;

d)                               l’art. 5 del DM 1444 prevede al comma 1 gli standards per i nuovi insediamenti di carattere industriale o ad essi assimilabile; e al comma 2 i nuovi insediamenti di carattere commerciale e direzionale (il locale del Nigro qualora fosse utilizzato anche per la vendita dei mobili si qualificherebbe quale insediamento assimilabile a quello industriale più che di carattere commerciale-direzionale);

e)                               dai dati tecnici elaborati dal professionista incaricato della variante alla concessione edilizia rilasciata al ricorrente risulta, infine, che per una superficie coperta pari a mq. 922.08 è previsto un parcheggio per mq. 539.40 ed un’area destinata a verde e piazzale pari a mq. 1235.52 (pertanto, sarebbe rispettato il rapporto previsto dall’art. 5 del citato DM 1444 comma 2 (mq. 40 a 100 mq));

f)                                sussiste interesse all’accertamento del silenzio rifiuto considerata anche la richiesta di risarcimento dei danni.

Il ricorso è stato trattenuto per la decisione alla pubblica udienza del 10 gennaio 2002.

Considerato in diritto  

In primo luogo, deve essere disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 52 del RD n.642 del 1907 essendosi verificate le particolari circostanze che la consentono: contemporanea giacenza delle cause da riunire davanti al medesimo giudice, esistenza di un nesso di connessione tra loro e sussistenza di ragioni di opportunità processuale tali da giustificare l’applicazione dell’istituto de quo.

1)Con il primo ricorso (ric. 304/2001), l’interessato ha chiesto sia l’accertamento della sussumibilità del mutamento di destinazione d’uso  nelle ipotesi nelle quali è sufficiente la comunicazione di inizio attività e sia l’annullamento della nota dirigenziale n. 1630 del 10.2.2000 e del silenzio rifiuto sulla istanza di concessione edilizia (in data 24.2.2000); infine ha formulato una richiesta di risarcimento del danno.

Il ricorso – premesso che si può prescindere dall’esaminare la questione dell’accertamento (considerato che il ricorrente ha presentato in data 23 febbraio 2000 istanza di concessione edilizia) e premesso pure che, ad avviso del Collegio, non vi è spazio per una tutela risarcitoria, anche  in mancanza di elementi di prova a supporto - è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse anche nella parte relativa al silenzio rifiuto (essendo successivamente intervenuto il provvedimento espresso del Comune in data 24.1.2001).

Al riguardo, in data 24.1.2001, il  Comune di Ceglie Messapica ha comunicato al ricorrente che “la CEC, nella seduta del 12.12.2000, ha espresso parere contrario sull’istanza per cambio di destinazione d’uso (da laboratorio artigianale e locale commerciale) in quanto il cambio di destinazione d’uso richiesto comporta variazione di standard urbanistici… non trattandosi di zona mista produttiva per cui l’art. 5 del D.I. 2.4.1968 disciplina e differenzia al comma 1° gli standard per gli insediamenti a carattere industriale o artigianale e al comma 2° gli standard per gli insediamenti a carattere artigianale”.

2)Quest’ultimo atto è stato impugnato con il secondo ricorso (ric. 1295/2001) nel quale sono stati eccepiti:

¨                                violazione e falsa applicazione artt. 8 e 25, comma 4, della legge 47/85, artt. 2 e segg. DM 1444/68; violazione di consolidati principi in tema di mutamento d’uso; disparità di trattamento; eccesso di potere; violazione artt. 23 e segg. Del D. lgs.vo 112/98 e 5 DPR 447/98; eccesso di potere per sviamento e carenza istruttoria e di motivazione.

La seconda impugnativa è fondata per accoglimento del primo motivo di ricorso ed assorbimento degli altri.

La controversia concerne questione di mutamento di destinazione d’uso (da laboratorio artigianale a locale commerciale).

La questione dell’ammissibilità del predetto mutamento di destinazione d’uso impone una riflessione a monte piuttosto ampia ed estesa circa i limiti intrinseci (e per così dire impliciti) della pianificazione urbanistica e territoriale; in altre parole, occorre chiedersi se, quando e quanto sia possibile <<espandere>> e rendere flessibili le previsioni degli strumenti urbanistici.

Tradizionale dottrina e giurisprudenza insegnano che la pianificazione riguarda sia gli aspetti di assetto del territorio, con profili anche non propriamente urbanistici,  che quelli  urbanistici in senso stretto.

In ogni caso, la ratio della pianificazione è rinvenibile nell’aspirazione all’ordine e alla globalità della totalità del territorio di riferimento e a garanzia della stabilità delle previsioni urbanistiche e del relativo affidamento del cittadino.

E’ evidente che le Autorità – nello svolgimento del  loro ruolo di governo del territorio – oltre a vedere correlarsi naturalmente l’attività urbanistica e quella di programmazione economica (cosa che, in alcuni casi, ha determinato un incremento dei contenuti di dettaglio dei vari piani) – sono consapevoli anche dell’evoluzione continua della situazione originaria degli assetti.

Tanto premesso, è parimenti evidente che l’esigenza di ordine e globalità della  disciplina– per evitare punti di rottura - deve essere controbilanciata da una certa mobilità in relazione alle concrete esigenze di volta in volte espresse dal contesto e dagli operatori privati e socio-economici interessati (tanto spiega eventuali meccanismi derogatori o aggiuntivi per adeguare le sfasature tra le previsioni di piano e gli assetti territoriali).

Pure la tradizionale distinzione in zonizzazioni e localizzazioni non deve essere ingessata in rigidi schemi e meccanismi e deve, pertanto, essere collegata con le situazioni di fatto ed i complessivi delicati aspetti di ordine fisico, storico e socio-economico.

Più in dettaglio e per limitare le considerazioni ad una trattazione meno generalizzata, anche la distinzione tra aree edificate e non edificate (zone agricole) è intesa, specie di recente, dalla giurisprudenza in un senso meno rigido e maggiormente flessibile, pur nel rispetto del principio del razionale e ordinato sfruttamento del territorio di riferimento.

Una questione interessante, che costituisce anche uno dei profili  più delicati, è quella del rapporto tra la destinazione di una certa zona e le eventuali attività compatibili.

La verifica di questo profilo comporta delle significative conseguenze sulla soluzione dei problemi relativi al mutamento di destinazione d’uso.

In proposito, si ritiene che  il problema deve essere risolto in base a principi di carattere generale; in altre parole, sono ammissibili tutte quelle attività integrative e aggiuntive o migliorative che non si pongono insanabilmente in  contrasto con la zona e con la sua destinazione.

Al riguardo, il concetto di <<contrasto>> va inteso utilizzando il criterio della prevalenza  della destinazione sullo svolgimento delle altre attività.

Peraltro, è sempre necessaria una valutazione caso per caso relativa alla compatibilità; tuttavia, siffatta operazione dimostra e conferma la sussistenza di una certa flessibilità dello strumento di pianificazione (oltre che la sua opportunità).

Ad esempio si può ritenere che la destinazione ad insediamenti industriali implica l’esclusione, dalle relative zone, di costruzioni diversamente caratterizzate (abitative, per esempio).

Invece, nelle altre zone devono essere di volta in volta considerate ed effettuate valutazioni complessive di tutta una serie di elementi (caratteri e i limiti da osservare con riguardo all’edificazione in relazione ad altezze, distanze e rapporti tra scoperto e coperto).

Mutatis mutandis, le stesse considerazioni fin qui svolte valgono anche in relazione alla  ammissibilità del mutamento d’uso (o di destinazione d’uso) su una concessione già rilasciata (e, pertanto, in ordine a fabbricati già esistenti, ma inseriti in una determinata zona e destinazione di zona).

In proposito, prima di richiamare la normativa specifica sul tema, si deve  precisare che, ad avviso del Collegio - valorizzando il concetto di un ampio godimento degli immobili da parte dei proprietari, che trova la previsione costituzionale dell’art. 42 – possono ritenersi ammissibili quei mutamenti che – nell’ottica di un <<arricchimento dei contenuti degli strumenti urbanistici di pianificazione>> e fermo restando il rispetto dei principi generali di base - non comportino uno stravolgimento così significativo della destinazione di zona ed una incompatibilità intollerabile rispetto alla ratio della previsione originaria dello strumento urbanistico di regolazione del territorio.

Appare opportuno, a questo punto, richiamare la normativa in materia di mutamento di destinazione d’uso.

L’art. 1 della legge n. 10/77, in ordine alla trasformazione urbanistica del territorio e concessione di edificare, prevede che <<ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente legge>>.

L’art. 25 della legge n. 47 del 1985, relativo alla semplificazione delle procedure, nel testo modificato dall'art. 4, D.L. 5 ottobre 1993, n. 398 e sostituito dall'art. 2, comma 60, L. 23 dicembre 1996, n. 662, stabilisce all’ultimo comma che <<le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, subordinare a concessione, e quali mutamenti, connessi e non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti siano subordinati ad autorizzazione>>..

L'art. 25 legge cit. ha, in sostanza, demandato alle Regioni la predisposizione dei criteri della eventuale «...regolamentazione, in ambiti determinati del proprio territorio, delle destinazioni d'uso degli immobili, nonché dei casi in cui per la variazione di esse sia richiesta la preventiva autorizzazione del sindaco. La mancanza di tale autorizzazione comporta... le sanzioni... ed il conguaglio del contributo di concessione se dovuto».

Peraltro, anche l’art. 8 della stessa legge, relativo alla determinazione delle variazioni essenziali, dispone che <<le Regioni stabiliscono quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato …. tenuto conto che l'essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni>>  tra le quali alla <<lettera a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standard previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968  pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968…>>.

Infine, l’art. 4, comma 7, del D.L. n. 398/93 alla lettera e) disciplina la denuncia di inizio di attività.

In giurisprudenza  con una analisi puntuale ed attenta- è stata ricostruita la ratio della legge n. 47 del 1985 in relazione alla formulazione dell'art. 1 della legge n. 10 del 1977 (che allargava l'ambito dell'attività edilizia dalle singole costruzioni alla «trasformazione del territorio»), ed è stato precisato che la legge del 1985, senza grande chiarezza, tendeva a recuperare gli aspetti positivi di due posizioni dottrinarie che si erano affermate all’epoca (si fa riferimento ad un primo orientamento  più aderente allo spirito ed alla lettera della legge n. 10 del 1977, che estendeva sotto il controllo pubblicistico  «...ogni attività comportante trasformazione urbanistica...» e ad un secondo indirizzo, ancorato all'impianto originario della legge n. 1150 del 1942, e  riconducibile ad una visione più «statica» dell'urbanistica che legava strettamente il momento della licenza edilizia all'esecuzione di opere; in base a questa seconda impostazione la costruzione esaurirebbe temporalmente la funzione della previsione urbanistica che tornerebbe in rilievo o solamente nel caso di modificazioni strutturali.)

Orbene, la Regione Puglia non ha emanato la relativa normativa

La giurisprudenza (ex multis, T.a.r. Campania, sez. I, 30-10-1992, n. 382) ha altresì chiarito che possono aversi due distinte situazioni.

1)se la disciplina urbanistica permette in una certa zona più utilizzazioni, non si versa nel caso di «trasformazione urbanistica del territorio» ai sensi dell'art. 1 della legge n. 10 del 1977 quando si ha allocazione di una di queste in un immobile senza far ricorso ad opere (è' infatti evidente che in tali casi la previsione di una pluralità di possibili attività nell'ambito del comparto sia preceduta da una previa valutazione delle compatibilità socio-territoriale delle stesse con il tessuto urbanistico e conseguentemente, qualora venga posta in essere un'attività consentita dalla normativa urbanistica, non è necessaria né concessione, né autorizzazione al mutamento funzionale di destinazione in quanto la stessa disciplina pianificatoria attribuisce in via generale ai proprietari di immobili di utilizzare liberamente gli stessi nell'ambito delle attività consentite);

2) se invece il mutamento riguarda una delle attività non ammesse dalla disciplina di zona si deve distinguere a seconda se la Regione abbia emanato o meno  i criteri per la regolamentazione delle destinazioni d'uso degli immobili di cui all’art. 25 citato (a:nella prima ipotesi è possibile far luogo all'autorizzazione edilizia, previo conguaglio degli oneri di urbanizzazione se dovuti se naturalmente la variazione di destinazione richiesta sia compatibile con gli usi ammessi in deroga alla disciplina dell'area; b:nella seconda ipotesi non è  in ogni caso possibile modificare ad libitum le destinazioni d'uso degli immobili in contrasto con le disposizioni del regolamento edilizio in quanto in tale ipotesi manca la norma che legittima usi diversi in deroga alle norme regolamentari valide ed efficaci quali quelle del regolamento edilizio).

Nel secondo caso (Regione che non emana i relativi criteri) non vi è dubbio che la normativa urbanistica di zona costituisce un limite al cambio di destinazione d’uso; tuttavia, se si accede all’impostazione della naturale capacità espansiva degli strumenti urbanistici – se pure in limitati casi e senza portare il principio a conseguenze aberranti – tale limite non appare insuperabile.

Da un lato è copiosa la giurisprudenza che menziona la “normativa urbanistica di zona” o “lo strumento urbanistico nell’ambito della zona”.

D’altro canto è vero però che gli orientamenti giurisprudenziali, specie recenti, valorizzano il concetto di <uso compatibile e valutazione concreta della compatibilità degli interventi edilizi>.

In altre parole, il Collegio ritiene che possa aversi una situazione nella quale:

1)l’intervento edilizio progettato è volto a  realizzare opere di impatto poco significativo e incidente sul territorio in minima parte (l’ipotesi è assai vicina al mutamento di destinazione d’uso senza ricorso ad opere);

2)in relazione  a queste si deve valutare la compatibilità concreta con la destinazione di zona, avuto riguardo anche ad eventuali insediamenti preesistenti di altro tipo.

Tanto precisato:

a)da un lato, il Consiglio di Stato (C. Stato, sez. V, 21-07-1995, n. 1113) ritiene che il mutamento d'uso non collegato a lavori di modifica o a modificazioni del progetto in corso d'opera, non ha di per sé rilievo ai fini urbanistici, restando in ogni caso urbanisticamente indifferente il passaggio da una ad altra destinazione d'uso rientrante nelle varie destinazioni d'uso consentite dallo <<strumento urbanistico nell'ambito della zona>>.

Altra giurisprudenza (cfr., C. Stato, sez. V, 09-02-1996, n. 146) ha ritenuto che, nel caso in cui la <<normativa urbanistica di zona>> non consenta il mutamento di destinazione d'uso di un immobile, (nella specie, laddove le norme tecniche d'attuazione dello strumento urbanistico prevedono gli insediamenti per attività professionali ai piani diversi dal piano terreno degli edifici, solo quando non siano saturate le quote massime di ogni destinazione, come indicate nelle schede di ogni unità d'intervento), le convenzioni intervenute tra il privato ed il comune anche in epoca anteriore, non possono costituire deroga alla normazione urbanistica, in quanto gli strumenti urbanistici successivi sono idonei tanto a limitare le facoltà di un soggetto già destinatario di una concessione edilizia, quanto ad influire sull'interpretazione e sull'attuazione delle disposizioni contenute nella convenzione.

Nello stesso senso anche T.a.r. Sicilia, sez. Catania, 27-10-1994, n. 2377 in base al quale, ai sensi dell'art. 10 l.reg.sic. n. 37/85, deve ritenersi che ogni intervento di mutamento della destinazione di uso di un immobile rispetto a quella impressa con precedente provvedimento concessorio debba formare oggetto di provvedimento autorizzatorio, a prescindere dalla sussistenza o meno di realizzazione di opere edilizie, ed è ammesso solo a condizione che rientri tra i casi di mutamento <<previsti dallo strumento urbanistico generale e rispetti le prescrizioni di zona>>.

b)la giurisprudenza più recente appare, come si è detto,  maggiormente orientata verso una interpretazione evolutiva della normativa e dei concetti appena richiamati.

Con pronuncia del 1998 (C. Stato, sez. V, 03-01-1998, n. 24) il Consiglio di Stato ha specificato che la richiesta di cambio della destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un <<uso del tutto difforme>> da quelli ammessi, si pone in <<insanabile contrasto con lo strumento urbanistico>>, posto che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione formale destinata a muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal piano, bensì in un'alterazione idonea ad incidere, significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri prefigurati in quella.

Da ultimo, a conforto della ricostruzione effettuata, si richiama la pronuncia della Sezione V del  Consiglio di Stato (n. 949  del 23.2.2000) laddove, escludendo la sussistenza di un divieto assoluto di mutamento delle destinazioni d'uso nelle zone agricole (in attesa che gli strumenti urbanistici contengano una puntuale disciplina al riguardo), precisa che, nelle more dell'adeguamento degli strumenti urbanistici comunali alla suddetta normativa regionale, non può disconoscersi il potere del Sindaco di assentire <<semplici cambiamenti d'uso in zona agricola>>, tutte le volte che essi non si pongano in aperto contrasto con l'assetto urbanistico vigente.

Questione diversa è, invece, quella risolta da recentissima sentenza della Sezione V del Consiglio di Stato (n. 6411 del 27 dicembre 2001) che ha ritenuto che comporta un diverso carico urbanistico l’utilizzo di capannone -originariamente destinato ad opificio industriale- per la gestione di beni finiti, prodotti da altra azienda, regolando il flusso e il deflusso delle scorte sulla base di valutazioni legate al ciclo di commercializzazione del bene prodotto (in particolare, è stato ritenuto che tale attività, attratta nell’ambito della disciplina civilistica dell’intermediazione commerciale configura il passaggio del capannone dal settore industriale a quello commerciale).

Orbene, nel caso in esame, non sussiste la normativa regionale, funzionalizzata a prevedere e a disciplinare i casi in cui si possa fare eccezione alla tassatività delle prescrizioni in materia di destinazioni d’uso degli immobili.

Tuttavia, in base alle argomentazioni svolte circa la capacità espansiva dei provvedimenti di pianificazione in relazione alla valorizzazione delle esigenze dello sviluppo economico del territorio (che pure sono rispettosi delle indicazioni comunitarie, anche in materia di libera concorrenzialità in senso lato) si ritiene ammissibile la richiesta trasformazione richiesta da laboratorio artigianale a locale commerciale.

Al riguardo, l’edificio di proprietà del ricorrente è ubicato nel lotto n. 11 della zona industriale –artigianale di cui al Piano Quadro per gli Insediamenti Produttivi.

Il provvedimento impugnato, adottato dal Comune di Ceglie M. in data 24 gennaio 2001, è motivato sul fatto che il cambio di destinazione d’uso richiesto comporta variazione di standard urbanistici  non trattandosi di zona mista produttiva.

Dallo stalcio del citato Piano Quadro, allegato in atti, risulta che <<la zona oggetto del P.Q. è destinata alle attività secondarie consistenti in edifici ed attrezzature per l’attività industriale e quelle attività artigianali che non possono insediarsi nelle zone residenziali; inoltre, è consentita l’installazione di laboratori, magazzini, silos, rimesse, edifici ed altre attrezzature di natura ricreativa e sociale a servizio degli addetti, uffici, mostre connesse all’attività artigianale, nonché abitazione per il reparto direttivo, di sorveglianza e manutenzione degli impianti>>.

L’articolo 5 del DM del 1968, riferito ai rapporti massimi tra gli spazi destinati a insediamenti produttivi e gli spazi pubblici destinati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio, prevede che <<I rapporti massimi di cui all’art. 17 della legge n. 765 per gli insediamenti produttivi sono definiti :1) nei nuovi insediamenti di carattere industriale o ad essi assimilabili compresi nelle zone D la superficie da destinare a spazi pubblici o attività collettive, verde pubblico o a parcheggi non può essere inferiore al 10% dell’intera superficie destinata all’insediamento; 2)nei nuovi insediamenti di carattere commerciale e direzionale, a 100 mq di superficie lorda di pavimento di edifici previsti, deve corrispondere la quantità minima di 80 mq di spazio, di cui almeno la metà destinata a parcheggi>>.

Tanto premesso, dalla documentazione allegata (relazione istruttoria della pratica edilizia n. 5281/A/B del 29.11.2000) emerge che <<nel PDF e nella relativa variante planovolumetrica della zona c.4 compresa nel Piano Quadro del 1995 è previsto per le zone “per servizi di interesse comune” l’insediamento, tra l’altro, di attrezzature tecnico-distributive (depositi, magazzini all’ingrosso …)…emerge quindi che i parametri urbanistici ed edilizi di tale zona siano assimilabili, se non addirittura meno restrittivi, rispetto a quelli vigenti per le zone industriali-artigianali>> (peraltro, il lotto n. 11 è ubicato in posizione prossima alla zona c. 4 ed a questa complessivamente omogeneo per parametri urbanistici ed edilizi).

Infine, il ricorrente ha pure depositato una perizia di parte dalla quale risulta il rispetto degli standard di cui al DM del 1968  (superficie coperta/parcheggio/verde).

In ultimo, si precisa che, come documentato dal ricorrente, sembra che  in casi analoghi l’A.C. non abbia adottato i medesimi criteri di comportamento, (autorizzando l’esercizio di vendita all’ingrosso e al minuto di bevande in locali siti nella zona industriale-artigianale). 

Appare opportuno richiamare, in ultimo, alcune decisioni giurisprudenziali che –oltre ad effettuare la valutazione di compatibilità degli interventi edilizi in atto- hanno valorizzato il concetto di <attività libera>>  (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, 27 dicembre 1998, n. 852; Sez.  V, 10 marzo 1999, n. 231; T.A.R. Lombardia, Sezione di Brescia, 24 ottobre 1991, n. 726).

Ad esempio, il Consiglio di Stato, con la prima decisione, ha ritenuto che <<il mutamento di destinazione d'uso degli immobili deve essere individuato in base al progetto presentato e non con riferimento ad ipotesi future. La ratio sottesa all'imposizione del contributo di urbanizzazione previsto dalla L. 28 gennaio 1977 n. 10 contestualmente al rilascio di una concessione di costruzione si fonda sul presupposto dei maggiori carichi urbanistici che conseguono nella zona alla realizzazione dell'opera assentita; pertanto, non è dovuto alcun contributo per le opere di trasformazione di un immobile da una ad aItra destinazione, qualora da tali opere non risultino mutate “in modo apprezzabile” le caratteristiche urbanistiche della zona (nella specie si è ritenuto non dovuto il contributo in questione con riguardo alla trasformazione di un immobile da uffici a scuola)>>.

Sempre il Consiglio di Stato, con la richiamata pronuncia del 1999, ha precisato che <<in via generale, salve eventuali normative regionali richiamate nell'art. 25, ultimo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, il mutamento di destinazione d'uso sotto il profilo edilizio e urbanistico è rilevante solo se conseguente all'esecuzione di opere tali da rendere l'immobile strutturalmente idoneo ad un uso diverso da quello precedente. La modificazione d'uso meramente funzionale (e cioè senza l'esecuzione di opere edilizie) deve invece considerarsi attività libera, non soggetta nemmeno ad autorizzazione edilizia>>.

Il Collegio ritiene che si inquadrano in questa (sia pur relativa e limitata) liberalizzazione dei procedimenti assentivi degli interventi (minori) e di limitata deregolamentazione anche i seguenti indici ed aspetti:

a)alcune posizioni dottrinarie recenti, peraltro minoritarie, relative alla questione delle “opere interne” (di cui all’art. 26 della legge n. 47 del 1985 e alla una nuova definizione legislativa contenuta negli artt. 4, 7° c., lett. e) del D.L. n. 398/93, conv. in l. n. 493/93, 2, 60° comma, della l. n. 662/96 e 11 del D.L. n. 67/97, conv. con modificazioni in l. n. 137/97), in base alle quali  non sussisterebbe più il divieto di un aumento delle superfici utili o di modifica (fuori dal centro storico) della destinazione d’uso o, per gli immobili della zona A, di modifica delle originarie caratteristiche costruttive, salvo il rispetto del numero delle unità immobiliari (si parla infatti di “opere interne di singole unità immobiliari”);  in particolare, la destinazione d’uso sarebbe stata praticamente deregolamentata;

b)la circostanza che l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato, nel parere n. 3 del 29 marzo 2001, reso sullo “Schema di testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”, ha convenuto sull’opportunità di sostituire il termine concessione con un nome nuovo (quale permesso -corrispondente al termine francese permis de construction ou de batir- o permissione o assentimento o altro, il quale dia il segnale della rivisitazione sistematica operata dalle norme riformatrici e assestata nel testo unico); che, peraltro, non denoti una recessione del diritto del proprietario e per converso non disconosca la funzione sociale del diritto ad edificare, affermata dalla Costituzione;

c)alcune considerazioni che si traggono dalla lettura del nuovo T.U. dell’edilizia (decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380) che, in primo luogo, è volto alla riduzione dei titoli abilitativi (la concessione edilizia e la denuncia di inizio attività, con conseguente superamento dell’autorizzazione) e che, ad esempio, sul problema della gratuità o meno della denuncia di inizio attività, ha demandando all’autonomia comunale la scelta tra le due possibili soluzioni, ma ha previsto comunque che, in assenza di specifica deliberazione del Comune, l’intervento edilizio deve intendersi non assoggettato ad oneri (si ritiene che le considerazioni svolte possono restare ferme anche se l’art. 10 del citato D.p.r. n. 380 del 2001 ha, sostanzialmente, confermata l’interpretazione (più restrittiva) della legislazione precedente sul mutamento di destinazione d’uso  (nel senso che non risulta deregolamentato, essendo sottoposto – a seconda delle zone e ferma restando una disciplina regionale – a obbligo di permesso di costruire, o di denuncia di inizio di attività, di cui all’art. 10, comma 1, lett. c) e comma 2));

d)la circostanza che, nello stesso predetto parere dell’Adunanza Generale del 2001 - se da un lato si evidenzia che <l’unicità della disciplina della materia della concessione edilizia costituisce un punto fondamentale di omogeneità, indispensabile per dare garanzia al cittadino di uniformità di comportamenti in qualsiasi Regione egli intenda operare nel settore; la stessa non può pertanto costituire oggetto di una disciplina differenziata da Regione a Regione> -  dall’altro, si riscontra, in fatto, la sussistenza, in alcune Regioni di una <legislazione in difformità dalla disciplina generale, con l’istituzione, ad esempio, della cd. super d.i.a., (sulla quale il Governo non ha ritenuto di sollevare in proposito questione di legittimità costituzionale)>. Tale diversificazione, avvertita a livello regionale, può essere letta come un indice della naturale esigenza di evoluzione e di adeguamento della normativa in materia.

 

In conclusione, per quanto sopra esposto, il secondo ricorso (n. 1295/01) deve essere accolto.

Sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese.

 

PQM 

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sez.I^ di Lecce, definitivamente pronunciando, dichiara improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il primo ricorso (n. 304/2001), ed accoglie il secondo ricorso (n. 1295/2001).

Dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del giudizio.

Ordina che la presente Sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del 10.1.2002.

Presidente Aldo Ravalli

Estensore Maria Ada Russo