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T.A.R. Lecce 1040/2002

                                                                           

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sez. I^ di Lecce

composto dai signori magistrati:

Aldo Ravalli                                                                 Presidente

Paolo Severini                                                            Componente

Maria Ada Russo                                                        Componente relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Sul ricorso n. 28/01  proposto  da Tardio Paolo,

rappresentato e difeso dall’Avv. Adriano Tolomeo ed elettivamente domiciliato in Lecce presso il suo studio, in via Augusto Imperatore n.16;

CONTRO

Comune di Campi Salentina, non costituito;

 per l’annullamento

della nota in data 11.10.00 del Dirigente dell’Utc del Comune di Campi Salentina;

Visto il ricorsi con i relativi allegati;

Visti gli atti tutti di causa;

Data per letta, alla pubblica udienza del 10 gennaio 2002, la relazione della dott.ssa Maria Ada Russo e udito altresì l’Avv. Adriano Tolomeo;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

 Ritenuto in fatto

 Il ricorrente è proprietario di un compendio di aree nel Comune di Campi Salentina, sulle quali sono state realizzati un campo sportivo, ulteriori attrezzature sportive e una abitazione.

Il medesimo ha presentato al comune una istanza di concessione edilizia per  mutamento di destinazione d’uso dell’immobile originariamente assentito ad uso abitativo, volta alla trasformazione in pizzeria ad uso esclusivo dei frequentatori del centro sportivo.

Tuttavia, con il provvedimento impugnato, in data 11.10.2000,  gli è stato comunicato che “la CEC ha espresso parere contrario in quanto l’attività prevista non è compatibile con quanto previsto dall’art. 35-1 del REC che prevede attività compatibili con l’agricoltura”.

L’interessato eccepisce i seguenti motivi di ricorso:

 violazione e falsa applicazione art. 4 DL 398/93; carenza istruttoria e di motivazione (In particolare, il ricorrente precisa che l’intervento per il quale si è richiesto l’assenso comunale si riduceva ad un “mutamento funzionale di destinazione d’uso di un preesistente immobile di sua proprietà e che le uniche opere da realizzarsi riguardavano mere opere interne con la realizzazione di tramezzature e  l’adeguamento dei preesistenti impianti elettrici ed igienici alle nuove esigenze dell’immobile”. A suo avviso si tratterebbe di “interventi ricompresi tra quelli che ai sensi dell’art. 4, comma 7, Dl 398 del 1993 sono soggetti a mera DIA e a ciò non osta la circostanza che l’immobile si trova in zona tipologia E”. Infine, il ricorrente ritiene che “nella zona omogenea E del Comune di Campi S. non è vietato in assoluto la realizzazione di interventi edilizi strumentali ad attività umane che non siano quelle agricole”.)

Con ordinanza  n.190  del 24 gennaio 2001 questo Tar ha respinto la domanda incidentale di sospensione ritenendo che il diniego di cambio di destinazione d’uso incide sullo sviluppo dell’attività ma non sull’attività in atto.

In data 3 gennaio 2002 il ricorrente ha depositato memoria conclusiva nella quale ha ribadito le argomentazioni svolte nel ricorso e, in particolare, ha specificato che la destinazione agricola della zona non determina una inedificabilità assoluta, eccezion fatta per interventi oggettivamente agricoli, bensì preclude la creazione di nuova residenzialità nella zona che ne snaturi le caratteristiche e la destinazione primaria (così non è, a suo avviso, nel caso di specie, nel quale  l’intervento è esiguo (mq 73 totali) e ha natura privata perché destinata esclusivamente ai frequentatori del centro sportivo).

Il ricorso è stato trattenuto per la decisione alla pubblica udienza del 10.1.2002.

Considerato in diritto

 

La controversia concerne questione di mutamento di destinazione d’uso (da immobile originariamente assentito ad uso abitativo a trasformazione in pizzeria ad uso esclusivo dei frequentatori del centro sportivo).

L’interessato eccepisce i seguenti motivi di ricorso: violazione e falsa applicazione art. 4 DL 398/93; carenza istruttoria e di motivazione.

La questione dell’ammissibilità del predetto mutamento di destinazione d’uso impone una riflessione a monte piuttosto ampia ed estesa circa i limiti intrinseci (e per così dire impliciti) della pianificazione urbanistica e territoriale; in altre parole, occorre chiedersi se, quando e quanto sia possibile <<espandere>> e rendere flessibili le previsioni degli strumenti urbanistici.

Tradizionale dottrina e giurisprudenza insegnano che la pianificazione riguarda sia gli aspetti di assetto del territorio, con profili anche non propriamente urbanistici,  che quelli  urbanistici in senso stretto.

In ogni caso, la ratio della pianificazione è rinvenibile nell’aspirazione all’ordine e alla globalità della totalità del territorio di riferimento e a garanzia della stabilità delle previsioni urbanistiche e del relativo affidamento del cittadino.

E’ evidente che le Autorità – nello svolgimento del  loro ruolo di governo del territorio – oltre a vedere correlarsi naturalmente l’attività urbanistica e quella di programmazione economica (cosa che, in alcuni casi, ha determinato un incremento dei contenuti di dettaglio dei vari piani) – sono consapevoli anche dell’evoluzione continua della situazione originaria degli assetti.

Tanto premesso, è parimenti evidente che l’esigenza di ordine e globalità della  disciplina– per evitare punti di rottura - deve essere controbilanciata da una certa mobilità in relazione alle concrete esigenze di volta in volte espresse dal contesto e dagli operatori privati e socio-economici interessati (tanto spiega eventuali meccanismi derogatori o aggiuntivi per adeguare le sfasature tra le previsioni di piano e gli assetti territoriali).

Pure la tradizionale distinzione in zonizzazioni e localizzazioni non deve essere ingessata in rigidi schemi e meccanismi e deve, pertanto, essere collegata con le situazioni di fatto ed i complessivi delicati aspetti di ordine fisico, storico e socio-economico.

Più in dettaglio e per limitare le considerazioni ad una trattazione meno generalizzata e più attinente al caso di specie, anche la distinzione tra aree edificate e non edificate (zone agricole) è intesa, specie di recente, dalla giurisprudenza in un senso meno rigido e maggiormente flessibile, pur nel rispetto del principio del razionale e ordinato sfruttamento del territorio di riferimento.

Ad esempio, per quanto da un lato le zone agricole (E) mantengono la loro peculiare funzione di tutela del valore ambientale e di polmone verde, d’altro canto, le stesse, in sede di legislazione regionale, vengono anche considerate come zone produttive  e  non vengono limitate all’esercizio effettivo dell’agricoltura e dei suoi interessi, ma sono volte ad evitare ulteriori insediamenti edilizi, pregiudizievoli per l’equilibrio complessivo del territorio.

Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito che la destinazione a verde agricolo ben può essere diretta ad assicurare il bilanciamento tra aree edificate e non (cfr., Cons. Stato, sez. IV, n. 581 del 1 giugno 1993; sez. V, n. 968 del 28 settembre 1993; sez. IV, n. 464 dell’11 giugno 1990).

A prescindere da eventuali problemi di costituzionalità delle riserve a destinazioni di zona (in passato sollevati e risolti dalla Corte Costituzionale –cfr. Corte Costituzionale n. 789 del 23 giugno 1988) una questione interessante, che costituisce anche uno dei profili  più delicati, è quella del rapporto tra la destinazione a zona agricola e le eventuali attività compatibili.

La verifica di questo profilo comporta delle significative conseguenze sulla soluzione dei problemi relativi al mutamento di destinazione d’uso.

Partendo sempre dalla precisazione che la destinazione a zona agricola non può restringersi alla sola coltivazione del fondo e che la stessa preclude gli insediamenti residenziali tout court, si ritiene che  il problema cui si accennava prima (del mutamento di destinazione) deve essere risolto in base a principi di carattere generale; in altre parole, sono ammissibili tutte quelle attività integrative e aggiuntive o migliorative che non si pongono insanabilmente in  contrasto con la zona e con la sua destinazione.

Al riguardo, il concetto di <<contrasto>> va inteso utilizzando il criterio della prevalenza  della destinazione (utilizzato anche in ambito comunitario) sullo svolgimento delle altre attività.

E’ appena il caso di precisare che sono stati ritenuti ammissibili in zona agricola una serie di interventi (a titolo esemplificativo, si richiamano: deposito di esplosivi, discariche, e impianti idroelettrici). Peraltro, è sempre necessaria una valutazione caso per caso relativa alla compatibilità; tuttavia, siffatta operazione dimostra e conferma la sussistenza di una certa flessibilità dello strumento di pianificazione (oltre che la sua opportunità).

Ad esempio, si ritiene che i casi di destinazione ad insediamenti industriali implicano l’esclusione, dalle relative zone, di costruzioni diversamente caratterizzate (abitative, per esempio).

Invece, nelle altre zone devono essere di volta in volta effettuate delicate valutazioni, considerati una serie di elementi (caratteri e limiti da osservare con riguardo all’edificazione in relazione ad altezze, distanze e rapporti tra scoperto e coperto)

Mutatis mutandis, le stesse considerazioni fin qui svolte valgono anche in relazione alla  ammissibilità del mutamento d’uso (o di destinazione d’uso) su una concessione già rilasciata (e, pertanto, in ordine a fabbricati già esistenti, ma inseriti in una determinata zona e destinazione di zona).

In proposito, prima di richiamare la normativa specifica sul tema, si deve  precisare che, ad avviso del Collegio - valorizzando il concetto di un ampio godimento degli immobili da parte dei proprietari, che trova la previsione costituzionale dell’art. 42 – possono ritenersi ammissibili quei mutamenti che – nell’ottica di un <<arricchimento dei contenuti degli strumenti urbanistici di pianificazione>> e fermo restando il rispetto dei principi generali di base - non comportino uno stravolgimento così significativo della destinazione di zona ed una incompatibilità intollerabile rispetto alla ratio della previsione originaria dello strumento urbanistico di regolazione del territorio.

Appare opportuno, a questo punto, richiamare la normativa in materia di mutamento di destinazione d’uso.

L’art. 1 della legge n. 10/77, in ordine alla trasformazione urbanistica del territorio e concessione di edificare, prevede che <<ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente legge>>.

L’art. 25 della legge n. 47 del 1985, relativo alla semplificazione delle procedure, nel testo modificato dall'art. 4, D.L. 5 ottobre 1993, n. 398 e sostituito dall'art. 2, comma 60, L. 23 dicembre 1996, n. 662, stabilisce all’ultimo comma che <<le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, subordinare a concessione, e quali mutamenti, connessi e non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti siano subordinati ad autorizzazione>>..

L'art. 25 legge cit. ha, in sostanza, demandato alle Regioni la predisposizione dei criteri della eventuale «...regolamentazione, in ambiti determinati del proprio territorio, delle destinazioni d'uso degli immobili, nonché dei casi in cui per la variazione di esse sia richiesta la preventiva autorizzazione del sindaco. La mancanza di tale autorizzazione comporta... le sanzioni... ed il conguaglio del contributo di concessione se dovuto».

Peraltro, anche l’art. 8 della stessa legge, relativo alla determinazione delle variazioni essenziali, dispone che <<le Regioni stabiliscono quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato …. tenuto conto che l'essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni>>  tra le quali alla <<lettera a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standard previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968  pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968…>>.

Infine, l’art. 4, comma 7, del D.L. n. 398/93 alla lettera e) disciplina la denuncia di inizio di attività.

In giurisprudenza  con una analisi puntuale ed attenta- è stata ricostruita la ratio della legge n. 47 del 1985 in relazione alla formulazione dell'art. 1 della legge n. 10 del 1977 (che allargava l'ambito dell'attività edilizia dalle singole costruzioni alla «trasformazione del territorio»), ed è stato precisato che la legge del 1985, senza grande chiarezza, tendeva a recuperare gli aspetti positivi di due posizioni dottrinarie che si erano affermate all’epoca (si fa riferimento ad un primo orientamento  più aderente allo spirito ed alla lettera della legge n. 10 del 1977, che estendeva sotto il controllo pubblicistico  «...ogni attività comportante trasformazione urbanistica...» e ad un secondo indirizzo, ancorato all'impianto originario della legge n. 1150 del 1942, e  riconducibile ad una visione più «statica» dell'urbanistica che legava strettamente il momento della licenza edilizia all'esecuzione di opere; in base a questa seconda impostazione la costruzione esaurirebbe temporalmente la funzione della previsione urbanistica che tornerebbe in rilievo o solamente nel caso di modificazioni strutturali.)

Orbene, la Regione Puglia non ha emanato la relativa normativa

La giurisprudenza (ex multis, T.a.r. Campania, sez. I, 30-10-1992, n. 382) ha altresì chiarito che possono aversi due distinte situazioni.

1)se la disciplina urbanistica permette in una certa zona più utilizzazioni, non si versa nel caso di «trasformazione urbanistica del territorio» ai sensi dell'art. 1 della legge n. 10 del 1977 quando si ha allocazione di una di queste in un immobile senza far ricorso ad opere (è' infatti evidente che in tali casi la previsione di una pluralità di possibili attività nell'ambito del comparto sia preceduta da una previa valutazione delle compatibilità socio-territoriale delle stesse con il tessuto urbanistico e conseguentemente, qualora venga posta in essere un'attività consentita dalla normativa urbanistica, non è necessaria né concessione, né autorizzazione al mutamento funzionale di destinazione in quanto la stessa disciplina pianificatoria attribuisce in via generale ai proprietari di immobili di utilizzare liberamente gli stessi nell'ambito delle attività consentite);

2) se invece il mutamento riguarda una delle attività non ammesse dalla disciplina di zona si deve distinguere a seconda se la Regione abbia emanato o meno  i criteri per la regolamentazione delle destinazioni d'uso degli immobili di cui all’art. 25 citato (a:nella prima ipotesi è possibile far luogo all'autorizzazione edilizia, previo conguaglio degli oneri di urbanizzazione se dovuti se naturalmente la variazione di destinazione richiesta sia compatibile con gli usi ammessi in deroga alla disciplina dell'area; b:nella seconda ipotesi non è  in ogni caso possibile modificare ad libitum le destinazioni d'uso degli immobili in contrasto con le disposizioni del regolamento edilizio in quanto in tale ipotesi manca la norma che legittima usi diversi in deroga alle norme regolamentari valide ed efficaci quali quelle del regolamento edilizio).

Nel secondo caso (Regione che non emana i relativi criteri) non vi è dubbio che la normativa urbanistica di zona costituisce un limite al cambio di destinazione d’uso; tuttavia, se si accede all’impostazione della naturale capacità espansiva degli strumenti urbanistici – se pure in limitati casi e senza portare il principio a conseguenze aberranti – tale limite non appare insuperabile.

Da un lato è copiosa la giurisprudenza che menziona la “normativa urbanistica di zona” o “lo strumento urbanistico nell’ambito della zona”.

D’altro canto è vero però che gli orientamenti giurisprudenziali, specie recenti, valorizzano il concetto di <uso compatibile e valutazione concreta della compatibilità degli interventi edilizi>.

In altre parole, il Collegio ritiene che possa aversi una situazione nella quale:

1)l’intervento edilizio progettato è volto a  realizzare opere di impatto poco significativo e incidente sul territorio in minima parte (l’ipotesi è assai vicina al mutamento di destinazione d’uso senza ricorso ad opere);

2)in relazione  a queste si deve valutare la compatibilità concreta con la destinazione di zona, avuto riguardo anche ad eventuali insediamenti preesistenti di altro tipo.

Tanto precisato:

a)da un lato il Consiglio di Stato (C. Stato, sez. V, 21-07-1995, n. 1113) ritiene che il mutamento d'uso non collegato a lavori di modifica o a modificazioni del progetto in corso d'opera, non ha di per sé rilievo ai fini urbanistici, restando in ogni caso urbanisticamente indifferente il passaggio da una ad altra destinazione d'uso rientrante nelle varie destinazioni d'uso consentite dallo <<strumento urbanistico nell'ambito della zona>>.

Altra giurisprudenza (cfr., C. Stato, sez. V, 09-02-1996, n. 146) ha ritenuto che, nel caso in cui la <<normativa urbanistica di zona>> non consenta il mutamento di destinazione d'uso di un immobile, (nella specie, laddove le norme tecniche d'attuazione dello strumento urbanistico prevedono gli insediamenti per attività professionali ai piani diversi dal piano terreno degli edifici, solo quando non siano saturate le quote massime di ogni destinazione, come indicate nelle schede di ogni unità d'intervento), le convenzioni intervenute tra il privato ed il comune anche in epoca anteriore, non possono costituire deroga alla normazione urbanistica, in quanto gli strumenti urbanistici successivi sono idonei tanto a limitare le facoltà di un soggetto già destinatario di una concessione edilizia, quanto ad influire sull'interpretazione e sull'attuazione delle disposizioni contenute nella convenzione.

Nello stesso senso anche T.a.r. Sicilia, sez. Catania, 27-10-1994, n. 2377 in base al quale, ai sensi dell'art. 10 l.reg.sic. n. 37/85, deve ritenersi che ogni intervento di mutamento della destinazione di uso di un immobile rispetto a quella impressa con precedente provvedimento concessorio debba formare oggetto di provvedimento autorizzatorio, a prescindere dalla sussistenza o meno di realizzazione di opere edilizie, ed è ammesso solo a condizione che rientri tra i casi di mutamento <<previsti dallo strumento urbanistico generale e rispetti le prescrizioni di zona>>.

b)dall’altro, la giurisprudenza più recente appare maggiormente orientata verso una interpretazione evolutiva della normativa e dei concetti appena richiamati.

Con pronuncia del 1998 (C. Stato, sez. V, 03-01-1998, n. 24) il Consiglio di Stato ha specificato che la richiesta di cambio della destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un <<uso del tutto difforme>> da quelli ammessi, si pone in <<insanabile contrasto con lo strumento urbanistico>>, posto che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione formale destinata a muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal piano, bensì in un'alterazione idonea ad incidere, significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri prefigurati in quella.

Da ultimo, a conforto della ricostruzione effettuata, si richiama la pronuncia della Sezione V del  Consiglio di Stato (n. 949  del 23.2.2000) laddove, escludendo la sussistenza di un divieto assoluto di mutamento delle destinazioni d'uso nelle zone agricole (in attesa che gli strumenti urbanistici contengano una puntuale disciplina al riguardo), precisa che, nelle more dell'adeguamento degli strumenti urbanistici comunali alla suddetta normativa regionale, non può disconoscersi il potere del Sindaco di assentire <<semplici cambiamenti d'uso in zona agricola>>, tutte le volte che essi non si pongano in aperto contrasto con l'assetto urbanistico vigente.

Questione diversa è, invece, quella risolta da recentissima sentenza della Sezione V del Consiglio di Stato (n. 6411 del 27 dicembre 2001) che ha ritenuto che comporta un diverso carico urbanistico l’utilizzo di capannone -originariamente destinato ad opificio industriale- per la gestione di beni finiti, prodotti da altra azienda, regolando il flusso e il deflusso delle scorte sulla base di valutazioni legate al ciclo di commercializzazione del bene prodotto (in particolare, è stato ritenuto che tale attività, attratta nell’ambito della disciplina civilistica dell’intermediazione commerciale configura il passaggio del capannone dal settore industriale a quello commerciale).

Orbene, nel caso in esame, non sussiste la normativa regionale, funzionalizzata a prevedere e a disciplinare i casi in cui si possa fare eccezione alla tassatività delle prescrizioni in materia di destinazioni d’uso degli immobili.

Tuttavia, in base alle argomentazioni svolte circa la capacità espansiva dei provvedimenti di pianificazione in relazione alla valorizzazione delle esigenze dello sviluppo economico del territorio (che pure sono rispettosi delle indicazioni comunitarie, anche in materia di libera concorrenzialità) si ritiene ammissibile la richiesta trasformazione da immobile originariamente assentito ad uso abitativo in pizzeria ad uso esclusivo dei frequentatori del centro sportivo (pure trattandosi di zona omogenea E del Comune di Campi Salentina) in quanto  le utilizzazioni dei fabbricati non sono solo quelle legate all’attività di coltivazione e legate alla terra.

Sul punto, il Collegio condivide le considerazioni svolte nel ricorso circa il fatto che la destinazione agricola della zona non determina una inedificabilità assoluta e preclude solo la creazione di nuova residenzialità nella zona (che ne snaturi le caratteristiche e la destinazione primaria);  nel caso di specie, l’intervento è esiguo (mq 73 totali) e ha natura privata perché destinato esclusivamente ai frequentatori del centro sportivo.

Peraltro, il provvedimento impugnato è motivato sulla base del contrasto con l’articolo 35-1 del Regolamento edilizio comunale che prevede attività compatibili con l’agricoltura.

Tuttavia, la disposizione citata non esclude l’ubicazione di fabbricati e attrezzature relative a particolari <<servizi di interesse pubblico>> (mattatoi, impianti di depurazione dei liquami di fogna, impianti di incenerimento e attrezzature simili).

Appare opportuno richiamare, in ultimo, alcune decisioni giurisprudenziali che –oltre ad effettuare la valutazione di compatibilità degli interventi edilizi in atto- hanno valorizzato il concetto di <attività libera>>  (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, 27 dicembre 1998, n. 852; Sez.  V, 10 marzo 1999, n. 231; T.A.R. Lombardia, Sezione di Brescia, 24 ottobre 1991, n. 726).

Ad esempio, il Consiglio di Stato, con la prima decisione, ha ritenuto che <<il mutamento di destinazione d'uso degli immobili deve essere individuato in base al progetto presentato e non con riferimento ad ipotesi future. La ratio sottesa all'imposizione del contributo di urbanizzazione previsto dalla L. 28 gennaio 1977 n. 10 contestualmente al rilascio di una concessione di costruzione si fonda sul presupposto dei maggiori carichi urbanistici che conseguono nella zona alla realizzazione dell'opera assentita; pertanto, non è dovuto alcun contributo per le opere di trasformazione di un immobile da una ad aItra destinazione, qualora da tali opere non risultino mutate “in modo apprezzabile” le caratteristiche urbanistiche della zona (nella specie si è ritenuto non dovuto il contributo in questione con riguardo alla trasformazione di un immobile da uffici a scuola)>>.

Sempre il Consiglio di Stato, con la richiamata pronuncia del 1999, ha precisato che <<in via generale, salve eventuali normative regionali richiamate nell'art. 25, ultimo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, il mutamento di destinazione d'uso sotto il profilo edilizio e urbanistico è rilevante solo se conseguente all'esecuzione di opere tali da rendere l'immobile strutturalmente idoneo ad un uso diverso da quello precedente. La modificazione d'uso meramente funzionale (e cioè senza l'esecuzione di opere edilizie) deve invece considerarsi attività libera, non soggetta nemmeno ad autorizzazione edilizia>>.

Il Collegio ritiene che si inquadrano in questa (sia pur relativa e limitata) liberalizzazione dei procedimenti assentivi degli interventi (minori) e di limitata deregolamentazione anche i seguenti indici ed aspetti:

a)alcune posizioni dottrinarie recenti, peraltro minoritarie, relative alla questione delle “opere interne” (di cui all’art. 26 della legge n. 47 del 1985 e alla una nuova definizione legislativa contenuta negli artt. 4, 7° c., lett. e) del D.L. n. 398/93, conv. in l. n. 493/93, 2, 60° comma, della l. n. 662/96 e 11 del D.L. n. 67/97, conv. con modificazioni in l. n. 137/97), in base alle quali  non sussisterebbe più il divieto di un aumento delle superfici utili o di modifica (fuori dal centro storico) della destinazione d’uso o, per gli immobili della zona A, di modifica delle originarie caratteristiche costruttive, salvo il rispetto del numero delle unità immobiliari (si parla infatti di “opere interne di singole unità immobiliari”);  in particolare, la destinazione d’uso sarebbe stata praticamente deregolamentata;

b)la circostanza che l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato, nel parere n. 3 del 29 marzo 2001, reso sullo “Schema di testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”, ha convenuto sull’opportunità di sostituire il termine concessione con un nome nuovo (quale permesso -corrispondente al termine francese permis de construction ou de batir- o permissione o assentimento o altro, il quale dia il segnale della rivisitazione sistematica operata dalle norme riformatrici e assestata nel testo unico); che, peraltro, non denoti una recessione del diritto del proprietario e per converso non disconosca la funzione sociale del diritto ad edificare, affermata dalla Costituzione;

c)alcune considerazioni che si traggono dalla lettura del nuovo T.U. dell’edilizia (decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380) che, in primo luogo, è volto alla riduzione dei titoli abilitativi (la concessione edilizia e la denuncia di inizio attività, con conseguente superamento dell’autorizzazione) e che, ad esempio, sul problema della gratuità o meno della denuncia di inizio attività, ha demandando all’autonomia comunale la scelta tra le due possibili soluzioni, ma ha previsto comunque che, in assenza di specifica deliberazione del Comune, l’intervento edilizio deve intendersi non assoggettato ad oneri (si ritiene che le considerazioni svolte possono restare ferme anche se l’art. 10 del citato D.p.r. n. 380 del 2001 ha, sostanzialmente, confermata l’interpretazione (più restrittiva) della legislazione precedente sul mutamento di destinazione d’uso  (nel senso che non risulta deregolamentato, essendo sottoposto – a seconda delle zone e ferma restando una disciplina regionale – a obbligo di permesso di costruire, o di denuncia di inizio di attività, di cui all’art. 10, comma 1, lett. c) e comma 2));

d)la circostanza che, nello stesso predetto parere dell’Adunanza Generale del 2001 - se da un lato si evidenzia che <l’unicità della disciplina della materia della concessione edilizia costituisce un punto fondamentale di omogeneità, indispensabile per dare garanzia al cittadino di uniformità di comportamenti in qualsiasi Regione egli intenda operare nel settore; la stessa non può pertanto costituire oggetto di una disciplina differenziata da Regione a Regione> -  dall’altro, si riscontra, in fatto, la sussistenza, in alcune Regioni di una <legislazione in difformità dalla disciplina generale, con l’istituzione, ad esempio, della cd. super d.i.a., (sulla quale il Governo non ha ritenuto di sollevare in proposito questione di legittimità costituzionale)>. Tale diversificazione, avvertita a livello regionale, può essere letta come un indice della naturale esigenza di evoluzione e di adeguamento della normativa in materia.

In conclusione, per quanto sopra esposto, il ricorso deve essere accolto.

Sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese.

 

PQM

 

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sez.I^ di Lecce, definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso in epigrafe e, per l’effetto, annulla il provvedimento impugnato in data 11 ottobre 2000.

Dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del giudizio.

Ordina che la presente Sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del 10.1.2002.

Presidente Aldo Ravalli

Estensore Maria Ada Russo