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Ordinanza 458 del 28 dicembre 2006

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

 Giovanni Maria FLICK
- Francesco AMIRANTE
- Ugo DE SIERVO
- Romano VACCARELLA
- Alfio FINOCCHIARO
- Alfonso QUARANTA
- Franco GALLO
- Luigi MAZZELLA
- Gaetano SILVESTRI
- Sabino CASSESE
- Maria Rita SAULLE
- Giuseppe TESAURO
- Paolo Maria NAPOLITANO

 

Presidente

Giudice

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ha pronunciato la seguente ordinanza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 (Interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 2002, n. 178, promosso con ordinanza del 16 gennaio 2006 dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di R. U. ed altro, iscritta al n. 80 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2006.
Udito nella camera di consiglio del 6 dicembre 2006 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che con l’ordinanza in epigrafe la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 del decreto–legge 8 luglio 2002, n. 138 (Interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 2002, n. 178, che reca l’«interpretazione autentica» della nozione di «rifiuto» di cui all’art. 6 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio);
che la Corte rimettente riferisce di essere investita del ricorso per cassazione proposto da due imputati, avverso la sentenza del Tribunale di S. Maria Capua Vetere che li aveva dichiarati colpevoli del reato continuato di cui all’art. 51, comma 1, del d.lgs. n. 22 del 1997 e condannati alla pena, condizionalmente sospesa, di euro 5.000 di ammenda, per aver smaltito e trasportato, in tempi diversi, rifiuti non pericolosi senza la prescritta autorizzazione;
che i fatti, commessi sino al 14 novembre 2000, erano consistiti segnatamente nella vendita, da parte del primo dei ricorrenti, del siero di latte derivante dall’attività produttiva di un caseificio – sostanza qualificabile come rifiuto, in quanto residuo del processo di lavorazione – all’altro imputato, titolare di azienda zootecnica, che lo aveva destinato ad alimento per bovini;
che il Tribunale era pervenuto alla condanna sull’assunto che la norma interpretativa sopravvenuta di cui all’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002 – la quale aveva espunto dal novero dei rifiuti residui di produzione quali quelli oggetto del giudizio a quo – doveva essere disapplicata in quanto contraria alla nozione comunitaria di rifiuto, recepita nell’art. 6 del d.lgs. n. 22 del 1997, come interpretata dalla Corte di giustizia delle Comunità europee con la sentenza 11 novembre 2004, in causa C–457/02;
che, ad avviso della Corte rimettente, la norma impugnata – pur autoqualificandosi come interpretativa – avrebbe modificato in senso restrittivo la nozione di rifiuto di cui all’art. 6 del d.lgs. n. 22 del 1997, riproduttiva di quella stabilita dall’art. 1 della direttiva 75/442/CEE (come modificata dalla direttiva 91/156/CEE);
che alla stregua di tali ultime disposizioni, infatti, costituisce rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto, rientrante in una delle categorie elencate in apposito allegato, di cui il detentore «si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi»;
che l’elencazione dell’allegato ha, peraltro, carattere «aperto»: la prima categoria di esso (Q1) comprende, infatti, tutti i residui di produzione o di consumo di seguito non specificati; mentre l’ultima (Q16) abbraccia qualunque sostanza, materia o prodotto non incluso nelle altre categorie;
che l’anzidetta nozione sarebbe stata circoscritta dalla norma impugnata sotto un duplice profilo;
che da un lato, infatti – secondo detta norma − il concetto di «disfarsi» dovrebbe essere inteso come avvio o sottoposizione della sostanza ad attività di smaltimento o recupero, espungendo così dal novero dei rifiuti i materiali di cui il detentore si disfi mediante puro e semplice «abbandono»;
che dall’altro lato, e soprattutto, la sedicente norma interpretativa avrebbe escluso la configurabilità delle fattispecie della decisione e dell’obbligo di «disfarsi», ove si tratti di residui di produzione o di consumo che «possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente», ovvero «dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero»;
che, in tal modo, il legislatore italiano sarebbe venuto meno agli obblighi di leale collaborazione di cui all’art. 10 del Trattato CE, pregiudicando gli obiettivi di salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente e di protezione della salute umana, previsti dall’art. 174 dello stesso Trattato;
che di questo avviso si è mostrata anche la Corte di giustizia delle Comunità europee, investita in via pregiudiziale della questione relativa alla compatibilità comunitaria dell’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002; con la sentenza 11 novembre 2004, in causa C–457/02, essa ha infatti negato che la nozione comunitaria di rifiuto possa essere interpretata nel senso di ricomprendere soltanto le sostanze e i materiali destinati o soggetti ad operazioni di smaltimento o recupero, e di escludere l’insieme dei residui di produzione o di consumo riutilizzati in un ciclo di produzione o consumo, senza trattamento preventivo o con trattamento non recuperatorio;
che dalla nozione comunitaria di rifiuto può esulare – secondo la Corte europea – unicamente il materiale derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione, non destinato principalmente a produrlo, riutilizzato dal produttore senza trasformazione preliminare, nel corso dello stesso processo produttivo: trattandosi, in tal caso, non di un residuo, ma di un «sottoprodotto», di cui il produttore non intende «disfarsi», ma che vuole invece reimpiegare nel medesimo ciclo di produzione;
che tale ultima ipotesi non ricorrerebbe, peraltro, nel caso oggetto del giudizio a quo, concernente siero di latte, residuato da una produzione casearia, che veniva ceduto dal produttore affinché fosse riutilizzato da un’azienda zootecnica, e dunque in un ciclo produttivo diverso;
che – contrariamente a quanto si afferma nella sentenza impugnata – la norma denunciata non potrebbe essere, tuttavia, direttamente disapplicata dal giudice nazionale in quanto incompatibile con il diritto comunitario, giacché la direttiva sui rifiuti non è «autoapplicativa», necessitando di un atto di recepimento da parte dei singoli Stati membri;
che, in senso contrario, non varrebbe addurre che la nozione di rifiuto di cui alla direttiva 75/442/CEE risulta richiamata dall’art. 2, lettera a), del regolamento CEE 1° febbraio 1993, n. 259/93 (Regolamento del Consiglio relativo alla sorveglianza e al controllo delle spedizioni di rifiuti all’interno della Comunità europea, nonché in entrata e in uscita dal suo territorio), di diretta applicazione nell’ordinamento italiano: giacché tale richiamo ha valenza limitata alla sola materia delle spedizioni di rifiuti, disciplinata dal regolamento stesso, e non è dunque riferibile né all’abbandono, né alle attività di gestione dei rifiuti diverse dalla spedizione (raccolta, trasporto, recupero, smaltimento);
che neppure, poi, si potrebbe sostenere – in ossequio al principio della prevalenza del diritto comunitario, sia originario che derivato – che il giudice nazionale debba dare comunque applicazione alla sentenza della Corte di giustizia, che ha espressamente statuito l’incompatibilità comunitaria dell’art. 14;
che le pronunce della Corte europea che precisano o integrano il significato di una norma comunitaria hanno, difatti, la stessa efficacia della norma interpretata;
che, di conseguenza, mentre nel caso di norma comunitaria direttamente efficace nell’ordinamento dei singoli Stati, il giudice nazionale non deve più applicare la norma interna con essa contrastante alla luce dell’interpretazione offerta dalla Corte di giustizia; nel caso in cui, invece – come nella specie – si tratti di norma comunitaria priva di efficacia diretta, il giudice italiano rimarrebbe comunque vincolato dalla norma interna;
che l’unico modo per rimediare al vulnus da questa recato ad una direttiva comunitaria non direttamente applicabile sarebbe, dunque, quello di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna per violazione degli obblighi di conformazione all’ordinamento comunitario, sanciti dall’art. 11 Cost. e, in modo ancor più esplicito, dal primo comma del novellato art. 117 Cost.;
che nella specie, d’altro lato, la violazione della disciplina comunitaria e, con essa, dei parametri costituzionali evocati, sarebbe resa ancor più grave dal fatto che, all’indomani della ricordata pronuncia della Corte di giustizia, il legislatore nazionale – nel conferire una delega al Governo per il riordino della legislazione in materia ambientale con legge 15 dicembre 2004, n. 308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione) – abbia mantenuto espressamente fermo il disposto della norma censurata (art. 1, comma 26, della legge citata);
che la questione sarebbe inoltre rilevante nel giudizio a quo, giacché se la norma resistesse al vaglio di costituzionalità, la sentenza impugnata dovrebbe essere annullata senza rinvio, perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato; mentre, nel caso in cui fosse dichiarata costituzionalmente illegittima, «si aprirebbe la duplice possibilità di rigettare il ricorso, con la conferma della condanna degli imputati, o di annullare senza rinvio la sentenza impugnata per difetto dell’elemento soggettivo della contravvenzione contestata, avendo gli imputati fatto affidamento incolpevole sulla portata normativa di una disposizione (l’art. 14) successivamente caducata»;
che all’ammissibilità della questione non sarebbe, per altro verso, di ostacolo la circostanza che la sentenza di accoglimento avrebbe comunque «un effetto in malam partem»;
che l’art. 14 del d.l. n. 308 del 2002 costituirebbe, infatti, una «norma penale di favore», trattandosi di disposizione extrapenale integratrice della fattispecie penale di cui agli artt. 6 e 51 del d.lgs. n. 22 del 1997 che – restringendo l’ampiezza dell’oggetto materiale del reato (i rifiuti) – deroga o abroga parzialmente, ovvero modifica in senso favorevole al reo, la precedente norma incriminatrice;
che, nella specie, il fatto contestato è stato d’altro canto commesso sotto l’impero della norma precedente più rigorosa, sicuramente conforme al diritto comunitario;
che, conseguentemente − ove la norma di favore sopravvenuta fosse dichiarata costituzionalmente illegittima – la conferma della responsabilità degli imputati in base ai citati artt. 6 e 51 del d.lgs. n. 22 del 1997 non violerebbe né il principio di irretroattività della legge penale, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., dato che la norma più sfavorevole era entrata in vigore prima del fatto contestato; né il principio di retroattività dell’abolitio criminis, di cui all’art. 2, secondo comma, del codice penale, giacché la retroattività della norma parzialmente abrogatrice verrebbe meno a fronte della sua caducazione;
che, in ogni caso, il problema risulterebbe superato dalla sentenza n. 148 del 1983, con la quale questa Corte ha riconosciuto la rilevanza e l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale delle norme penali di favore, sulla base della duplice considerazione che l’accoglimento della questione verrebbe comunque ad incidere sulle formule di proscioglimento o sul dispositivo della sentenza penale, nonché sullo schema argomentativo della relativa motivazione; ed avrebbe, inoltre, un «effetto di sistema» la cui valutazione spetta ai giudici ordinari.
Considerato che successivamente all’ordinanza di rimessione è intervenuto il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 14 aprile 2006, supplemento ordinario, il quale, in attuazione della delega conferita dall’art. 1 della legge n. 308 del 2004, reca, nella parte quarta (Norme in tema di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati), una nuova disciplina della gestione dei rifiuti, integralmente sostitutiva di quella già contenuta nel d.lgs. n. 22 del 1997;
che, per quanto in questa sede più interessa, il citato d.lgs. n. 152 del 2006 ha espressamente abrogato, all’art. 264, comma 1, lettera l), la norma di interpretazione autentica di cui all’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, sottoposta a scrutinio di costituzionalità dalla Corte rimettente;
che in luogo delle previsioni di cui al comma 2 del citato art. 14 – contro le quali si rivolgono, in particolare, le censure del giudice a quo – il medesimo decreto legislativo ha introdotto, all’art. 183, comma 1, lettera n), una nuova definizione di «sottoprodotto», sottratto a determinate condizioni all’applicazione della disciplina sui rifiuti: definizione che, peraltro – pur ponendosi, quanto a ratio, in linea di ideale continuità con la disposizione censurata – si discosta da essa sotto plurimi profili, sul piano della formulazione e dei contenuti precettivi;
che, pertanto – a prescindere dalle ulteriori modifiche sopravvenute, inerenti al quadro normativo comunitario di riferimento (abrogazione della direttiva 75/442/CEE ad opera della nuova direttiva in materia di rifiuti 2006/12/CE del 5 aprile 2006 del Parlamento europeo e del Consiglio; abrogazione del regolamento CEE n. 259/93 ad opera del nuovo regolamento CE 14 giugno 2006, n. 1013/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo alle spedizioni di rifiuti), non foriere, in parte qua, di innovazioni sostanziali – gli atti vanno restituiti alla Corte rimettente, ai fini di una nuova valutazione circa la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione sollevata, alla luce dello ius superveniens.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
ordina la restituzione degli atti alla Corte di cassazione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 dicembre 2006.

Giovanni Maria FLICK, Presidente e Redattore

Depositata in Cancelleria il 28 dicembre 2006.